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27 Luglio 2024 / 12:00
"La gente odia le pubblicità? Solo se manca il cuore"

 
Scenari

"La gente odia le pubblicità? Solo se manca il cuore"

di Massimo Cerofolini - 29 Gennaio 2020
Intervista a Luca Della Dora di We are social, uno degli ospiti del prossimo appuntamento dell’Osservatorio ABI Digital Marketing e Comunicazione Integrata, in programma a Milano il 4 febbraio: “Basta col bombardamento di messaggi che promuovono il brand. Le persone cercano contenuti di valore. Dagli smart speaker ai podcast, dalle app ai video brevi, ecco le forme più innovative per emozionare la propria clientela” 
“L’industria della pubblicità ha un problema: la gente odia le pubblicità”. La miccia l’ha accesa qualche tempo fa il New York Times con questo titolo tranciante. Certo, anche venti anni fa, c’era chi non gradiva gli spot all’interno dei film, al punto da chiamare il popolo italiano a vietarle - senza successo - con un referendum. Ma mai come oggi, nell’era di Internet e degli smartphone, il fastidio verso gli annunci promozionali è percepito in modo così diffuso e radicale. Questa, per le aziende che investono milioni sui loro marchi, è la cattiva notizia. Quella buona, invece, è che esiste un modo diverso per farsi conoscere: offrire contenuti di valore, capaci di intrattenere, informare, emozionare. Lasciando il brand in secondo piano, ma puntando sulla qualità trascinante del prodotto servito online.
È declinata sulla parola “cuore”, la seconda sessione dell’Osservatorio ABI Digital Marketing e Comunicazione Integrata, che si tiene a Milano il prossimo 4 febbraio (la precedente aveva al centro il termine “mente”, la successiva “identità”, vedi box sotto). Per tutta la giornata alcuni tra i maggiori esperti italiani proveranno a indicare le ultime frontiere del campo pubblicitario all’insegna della creatività e del coinvolgimento empatico. Tra gli altri, intervengono Lorenzo Di Stefano di Natlive (short video), Enrica Crivello di Guido (tendenze video), Alice Siracusano di Luz (marketing giornalistico) e Riccardo Pirrone di Kirweb (celebre per il suo instant marketing per le pompe funebri Taffo), oltre ad approfondimenti sui podcast, le gare a premi, la selfieconomy, le app e il machine learning creativo. Ad aprire i lavori sarà Luca Della Dora, Innovation Director dell'agenzia creativa We are social.

Osservatorio ABI Digital Marketing e Comunicazione Integrata

Tre appuntamenti dell’Osservatorio ABI Digital Marketing e Comunicazione Integrata per fare il punto sull’innovazione e l’impatto del digitale nella comunicazione e nel marketing del settore bancario, e non solo. Il 5 dicembre è andato in scena il primo incontro, di cui abbiamo parlato in questo articolo.
Il 4 febbraio e il 3 marzo 2020, esperti e professionisti si incontreranno e confronteranno, attraverso la testimonianza di aziende esterne al settore finanziario, sugli aspetti strategici e realizzativi dei seguenti temi:
  1. “Cuore - Emozioni e creatività guidano i nuovi approcci”
  2. “Identità - Immagine e valori: connubio per creare engagement”.
L’adesione all’Osservatorio dell’ABI, organizzato da ABIServizi (ABIEventi e Progetti Speciali), è riservata a banche e intermediari finanziari e dà diritto alla partecipazione gratuita del referente e 2 ulteriori colleghi all’evento #ilCliente 2020.

Ha ragione il New York Times ad annunciare i funerali della pubblicità?

Ogni giorno qualcuno si alza e afferma che la pubblicità è morta e sepolta. La mia risposta è no. Non c’è nessuna apocalisse in vista. Ma allo stesso tempo dico che non possiamo permetterci di ignorare ciò che sta accadendo con Internet e con gli smartphone. Fino a che il mezzo privilegiato dei pubblicitari era la tv, si poteva contare su un palinsesto definito con finestre temporali in cui lo spettatore “subiva” gli spot. E anche la carta stampata aveva regole prevedibili, ogni tot. pagine, per proporre le sue réclame. Le regole erano chiare, l’intrusività limitata e il destinatario controllava in qualche modo il gioco. Con Internet invece accade il contrario: è il mondo esterno che preme sugli utenti con notifiche e incursioni a getto continuo. Le persone sono esposte ogni giorno a un potenziale di 10 mila messaggi da parte dei brand, spesso con una cascata di finestre da chiudere per poter leggere o visionare il contenuto scelto. Ecco, diciamo che in questo senso l’articolo del New York Times coglie nel segno: la gente non tollera più essere continuamente interrotta mentre legge un articolo o si gusta un video. Non è un caso che quasi un utente su tre abbia attivato un qualche tipo di blocco delle pubblicità.

Dunque, sbagliano le aziende a posizionare il loro brand sopra ciò che le persone stanno vedendo online, scegliendole proprio in base al profilo fornito dagli algoritmi del web?

Sbagliano, sì. Il bombardamento ha superato i limiti di guardia, con una richiesta di attenzione caotica e crescente. Le persone, che di tempo ne hanno sempre meno, vogliono però una buona ragione per dedicare i momenti della loro vita a qualcosa. E questo se da una parte boccia la vecchia pratica dell’interruzione spasmodica, dall’altra apre alle aziende una nuova strada. Quella che siano loro stesse a creare contenuti di qualità, apprezzabili da tutti, promuovendosi così in modo indiretto.

In che modo?

Anzitutto avendo il coraggio di prendere posizione su temi di forte identità, anche lontani dal proprio terreno di business. Faccio il caso della Tesla, l’azienda del visionario imprenditore Elon Musk: spende appena 6 dollari di pubblicità per ogni auto venduta, un novantesimo rispetto alle cifre investite dai suoi concorrenti. Eppure vale oltre 100 miliardi di dollari, più di General Motors e Ford messe insieme, e si lascia negli specchietti retrovisori anche un mostro sacro come Volkswagen. Perché gli annunci di Musk funzionano meglio degli altri? Perché mentre le case automobilistiche tradizionali si concentrano sulle prestazioni delle loro vetture, Tesla parla di qualcosa di profondamente diverso. Parla di un futuro pulito, senza più produzioni di anidride carbonica da parte dell’uomo. Poi dona migliaia di pannelli solari agli abitanti dell’isola di Ta’u, dimostrando concretezza e coerenza nel suo messaggio. E le sue macchine rimangono un passo indietro, quasi un espediente narrativo per rafforzare questa visione del mondo. Il risultato è che la società di Musk offre alla gente un senso di appartenenza. Un desiderio di prendere parte a un sogno collettivo. E in questo modo sono le persone stesse a parlare del brand e in particolare dei suoi valori. Ecco dove a mio avviso deve andare oggi la pubblicità.

A proposito, l’articolo del New York Times da cui siamo partiti è la dimostrazione palese che le cose stanno così: grazie a un contenuto di valore, un servizio commentato da migliaia di persone sui social, il giornale ha ricevuto una risonanza che è andata molto oltre i suoi lettori tradizionali ...

Proprio così. Onestamente non saprei dire se il quotidiano americano stava dicendo la verità o se cercava soltanto qualche clic in più.

Nell’Osservatorio dell’ABI parlerete anche dei nuovi strumenti per realizzare questo coinvolgimento emotivo. A partire dal fenomeno emergente dei podcast.

Sì, i podcast sono uno dei mezzi più felici per realizzare contenuti di valore senza appesantirli troppo col messaggio pubblicitario. Faccio l’esempio di Bmw, che ha prodotto un podcast molto ben fatto, in cui si parla soprattutto di mobilità sostenibile: lo schema del racconto parte dal problema del traffico, dell’aria che respiriamo e del cambiamento climatico, prosegue con le soluzioni offerte dalla tecnologia e solo in coda arriva la proposta del brand. In più il podcast è uno di quei media caldi, ha l’autorevolezza della vecchia radio e il brand non spezza l’attenzione di un racconto, ma anzi viene percepito come ciò che regala qualcosa di prezioso a chi ascolta. Non solo. È un mezzo amato dalla gente perché è l’unico che permette di seguire una storia con attenzione mentre si fa anche altro, dalla guida alla cucina.

La voce ritorna anche in un altro fenomeno del momento: la pubblicità sugli smart speaker, gli altoparlanti intelligenti che possono interagire con le persone, fornendo risposte e aiuti all’occorrenza.

È una tendenza in forte crescita e ne stiamo studiando l’evoluzione. Oggi gli smart speaker come Alexa o Google Home sono bravi a risolvere specifici problemi e a offrire singole risposte. Col tempo però diventeranno abili anche in conversazioni più complesse. E allora, quando questi maggiordomi digitali saranno ovunque, i brand partiti in anticipo avranno un vantaggio competitivo sugli altri.

Altro veicolo per scaldare il cuore degli utenti sono i video brevi. Che novità prevede?

Tutti adesso spingono per i contenuti sotto forma di video. Conviene alle aziende, che aumentano la finestra di tempo in cui inserire il loro marchio, conviene alle piattaforme, che hanno tutto l’interesse a trattenere le persone dentro il loro spazio digitale, conviene agli stessi fruitori, che hanno accesso a contenuti più ricchi e articolati. Dal punto di vista tecnico ci sono tantissime opportunità: penso alla possibilità di storie dal finale interattivo, deciso cioè dall’utente sullo stile della puntata Bandersnatch della serie tv di Black Mirror. Oppure alla funzione presente su Instagram e YouTube che permette di acquistare un oggetto o un prodotto visto sul video, cliccando direttamente sullo schermo. Attenzione, però: nessuna scorciatoia. Guai a produrre storie di intrattenimento fine a se stesso. I video devono testimoniare i valori del brand in modo credibile e autorevole.

Una questione che si collega con quella che gli esperti chiamano Selfieconomy …

Sì, il discorso è lo stesso. I social network hanno permesso alle persone di manifestare prima il proprio pensiero, poi altri elementi della propria vita, fino ad arrivare alla rappresentazione totale e ideale di se stessi. In pratica offrire a chiunque i suoi cinque minuti di notorietà. Per i brand è un’occasione, visto che farsi vedere dai propri amici ora non basta più e in molti sono in cerca di nuove platee. Ecco che le aziende possono guidare questo bisogno di apparire coinvolgendo le persone nelle proprie campagne di promozione. Anche qui il punto è la qualità delle scelte. Non serve a nulla vedere l’immagine di un cliente che sorride con il monumento alle spalle. Ha un senso invece se lo si coinvolge con iniziative dal valore sociale che veicolano un messaggio positivo. Ad esempio, ripulire un parco dai rifiuti o sostenere una ricerca scientifica in campo medico.

Per finire le app. Quali sono le novità in vista per parlare al cuore dei propri potenziali clienti? E in questa strategia cosa si aspetta per le banche italiane?

Con le app sta succedendo un fatto nuovo. Le persone sono stanche di caricare sul telefono decine e decine di app che usano magari soltanto una volta, come nel caso di una compagnia aerea, o mai come nella maggioranza dei casi. Le banche da questo punto di vista sono messe meglio di tutti, perché le loro applicazioni sono tra le poche che sicuramente si usano con regolarità. Ad ogni modo il problema potrebbe essere superato dall’arrivo delle web app, quei siti che si comportano come applicazioni senza che ci sia bisogno di scaricare nulla, molto più pratici ed efficienti del sistema tradizionale.

#ilCliente 2020: al centro la relazione tra banche e clienti

Si terrà a Roma il 28 e il 29 aprile (Teatro Eliseo) #ilCliente 2020, l'appuntamento di riferimento in Italia sulla relazione tra mondo finanziario e clientela retail.
Due giornate di incontri, confronti, workshop e networking sulle nuove frontiere della relazione con la clientela e sulla sostenibilità come valore fondante e importante elemento di engagement. #ilCliente è l’occasione per conoscere i modelli, le tecnologie, le soluzioni, le idee per rendere più semplice, immediata, coinvolgente la Customer Experience.
 
 
 
 
 
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