Dal Fintech milanese alla Silicon Valley. Aspettando che passi l'epidemia
di Massimo Cerofolini
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8 Aprile 2020
Intervista a Marta Ghiglioni, 26 anni, ex direttore dell’Associazione che raggruppa le start-up finanziarie italiane, ora a San Francisco con progetti globali: “Qui innovare nel mio settore significa soprattutto cambiare la gestione del credito. In questa emergenza sono troppo pesanti le conseguenze per le persone più fragili. La mia soddisfazione maggiore per l’Italia? L’avvio del sandbox: una scossa positiva per tutti”
Era uno degli astri nascenti della finanza digitale milanese, tra le 15 donne più influenti nel campo tecnologico del nostro Paese, secondo Digitalic. Ma, ad appena 26 anni, dopo aver guidato Italia Fintech, l’associazione delle start-up del Fintech, tre mesi fa ha salutato tutti e ha preso un volo per San Francisco. Da una parte per lavorare nel cuore dell’innovazione globale, sogno coltivato sin dal 2016, quando frequentava i visionari corsi della Singularity University. Dall’altra, per raggiungere suo marito, giovane imprenditore brasiliano con una start-up che produce satelliti per monitorare il suolo dallo spazio. Ma sono bastati pochi giorni per trasformare la gioia della green card appena messa in tasca nel mesto rito di autoreclusione che osserva per proteggersi dal virus come la metà degli esseri umani. Marta Ghiglioni si è murata in casa da circa un mese, prima ancora che l’America tutta s’infilasse ufficialmente nel lockdown. E ora, dal suo appartamento a sud di San Francisco, dove ha idealmente inizio la Silicon Valley, osserva con spirito sospeso cosa si muove intorno a lei. Ecco quello che racconta a Bancaforte.
Come sta andando la sua quarantena?
Viviamo in una dimensione surreale. La città dei mille incontri e dei mille contatti si è trasformata all’improvviso in un deserto. Qui l’emergenza è arrivata dopo rispetto all’Italia. Ma ha seguito le stesse fasi d’urto: prima la negazione, poi la paura, quindi questo trasloco collettivo dentro un non-luogo. Ognuno è chiuso in casa, senza contatti esterni. La differenza con l’Italia è che non c’è polizia in giro. Tutto si basa su inviti a lavorare in smart working, a chiudere i negozi per fare consegne a domicilio. Salvo qualche raro passante che vedo dalla finestra, in generale ci si attiene in modo scrupoloso al lockdown. Del resto non ti viene voglia di rischiare il contagio quando pensi a quanto costi farsi curare in un ospedale. Vero che le assicurazioni continuano a tranquillizzarci dicendo che copriranno tutte le terapie anti Covid-19. Di fatto però negli Stati Uniti vige la regola che la salute è un problema di cui si occupa l’individuo per conto suo. E questo basta a rendere tutti abbastanza responsabili. In questo momento, comunque, il mio pensiero va soprattutto ai senzatetto che vivono nel centro della città, prima assistiti da tanti volontari e ora abbandonati a loro stessi.
Come si sta muovendo il mondo Fintech in questa situazione critica?
Devo dire che, anche prima dell’emergenza Coronavirus, il Fintech americano ha sempre dimostrato una spiccata attenzione per l’impegno sociale. Il punto è che, a differenza dell’Italia, qui ogni persona si misura dalla sua carta di credito. Non nel senso della capacità di spesa, ma del suo tasso di affidabilità nel restituire il credito. Ognuno riceve un punteggio che poi condiziona qualsiasi scelta di vita. Persino io, arrivata negli Usa con regolare green card e con risorse sufficienti, mi sono scontrata con questo modello, visto che anche per comprare una scheda telefonica devi costruirti prima un credit worthiness, un merito di credito, cosa non necessaria in Italia per le persone fisiche. Ecco allora che milioni di persone arrivano a 20 anni già con un carico di debiti legati agli studi universitari, mentre andando avanti con l’età si trovano a onorare ogni mese le spese per l’affitto o per l’assicurazione sanitaria a tutta la famiglia. Più s’indebitano e più le cose si complicano. Così basta un’emergenza come il Covid-19 per distruggere il futuro di tanta gente. Perché nessuno fa più loro credito o se ricevono un prestito devono pagare interessi da capogiro. Ecco, allora il ruolo delle start-up. Ci sono aziende, per esempio, che aiutano a ristrutturare il debito di chi vive in questa fascia di fragilità, migliorandone il credit worthiness. O altre che tengono memoria di tutti i comportamenti positivi delle persone, in modo da comunicarli tempestivamente ai credit bureau. Oppure che monitorano i pagamenti di soggetti a rischio, come quelli con tossicodipendenze o affetti da ludopatia, mandando avvisi prima di un prelievo, in modo da prevenire le ricadute.
Ma che impatto ha il Coronavirus sulla salute delle start-up, che sono il motore della Silicon Valley?
La comunità delle start-up vive un momento critico. Si tende a fare soltanto le cose importanti, mettendo da parte tutto il resto. E questo paradossalmente può produrre risultati opposti. Può diventare un acceleratore di scelte strategiche o può determinare un blocco nell’attività. L’opinione comune è che i nuovi round d’investimento arriveranno con un ritardo di almeno sei mesi. Ma la conseguenza più controversa è un'altra. Molte aziende tecnologiche hanno cominciato a licenziare il grosso dei loro ingegneri, per cause di forza maggiore, non certo legate alla qualità delle persone. E all’improvviso ci troviamo sul mercato del lavoro un’immensa quantità di personale ultraqualificato che diventa facile preda delle big tech, come Google o Facebook, e delle altre compagnie più solide. Lo stipendio base di un ingegnere qui era di almeno 200 mila dollari l’anno. Aspettiamoci un forte ridimensionamento di queste cifre.
Cosa sta facendo lei in questo momento?
Volevo venire qui da quattro anni, dopo i miei corsi alla Singularity University, che sono una vera e propria iniezione di energia per chi ama l’innovazione. Ho fatto domanda per la green card e quando l’ho ottenuta sono partita, anche per raggiungere mio marito. Il mio obiettivo è capire a fondo le dinamiche di questo mondo nel settore bancario e portarlo nella finanza italiana che ho conosciuto bene quando dirigevo Italia Fintech. Al momento lavoro come consulente per alcune start-up italiane, aiutandole a sviluppare strategie di respiro internazionale. Sono per esempio nel board di Walliance, la più grande azienda di crowdfunding immobiliare italiana. In pratica permettono a investitori privati di partecipare a operazioni di costruzione o rinnovamento di edifici che altrimenti sarebbero accessibili solo a persone con capacità di contatti e risorse economiche maggiori. È una sorta di democratizzazione del settore, dove chiunque può investire anche 500 euro, sapendo che una volta concluso il progetto sarà liquidata la sua parte di utili. Inoltre, sono advisor di un’altra start-up che si chiama Impact-on, che replica i migliori progetti a impatto sociale presenti nel mondo. In sostanza, cerca le realtà che sviluppano iniziative come il riuso della plastica per creare nuovi moduli abitativi, programmi scolastici sul climate change o sistemi per fronteggiare le epidemie, analizza i metodi e li ristruttura come modelli di istruzione da diffondere nella comunità internazionale. E in più faccio consulenze individuali per aiutare i clienti a capire cosa avviene in Silicon Valley e in Italia: di fatto supporto gli americani a muoversi in Europa nel business del digitale e viceversa.
Dopo un lungo periodo a capo dell’associazione delle start-up del settore che idea si è fatta del Fintech italiano?
In questi ultimi mesi si è assistito a una profonda maturazione del comparto. Abbiamo fatto un grande lavoro tutti insieme. Soprattutto per quanto riguarda il sandbox, lo spazio per la sperimentazione controllata della finanza innovativa in cui le nuove idee vengono condivise passo passo tra controllori pubblici e controllati. Il percorso si è chiuso il 31 marzo dopo la consultazione pubblica che è stata molto partecipata. Ora ci attendiamo i regolamenti del Ministero dell’economia, destinati a far fare un salto di qualità al mondo del credito. Mi aspetto che si prenda finalmente atto che la rivoluzione è davvero cominciata e che i sistemi tecnologici nel mondo bancario non sono più una scelta per pochi ma un obbligo per tutti. E quindi che anche le norme si adattino al riconoscimento e alla mitigazione dei rischi presenti in ogni fase innovativa. Conteniamo i pericoli, grazie al sandbox, ma senza proibire l’ingresso di strumenti utili agli utenti. Non ha senso aggiungere norme su norme che paralizzano il sistema senza peraltro alcuna vera tutela per il consumatore. In questo senso il sandbox permette di stabilire regole che non siano fini a se stesse, ma che accrescano sia i vantaggi che la sicurezza dei consumatori. Con la giusta flessibilità. Mai come oggi, in questa grave crisi sanitaria ed economica, la tecnologia rivela la sua indispensabile utilità.
Che benefici vede in prospettiva per le banche tradizionali?
Per aziende tradizionali il sandbox aumenta l’opportunità di collaborare con soggetti Fintech o di lanciare progetti in autonomia, perché garantisce un dialogo continuo con le autorità, in fase di sviluppo e non solo a cose fatte. L’innovazione non ha moduli prestabiliti, ma si orienta nelle forme migliori caso per caso: può arrivare da una o più start-up magari estranee al mondo finanziario, da una singola banca o da un consorzio di banche, oppure da una collaborazione tra tutti i soggetti in campo.
Dove si aspetta le novità più interessanti?
Me le aspetto su tutta la filiera: dai nuovi sistemi di pagamento alla capacità di aprire un conto corrente senza troppe complicazioni, per non parlare dell’arrivo di tecnologie nuove come la blockchain secondo una normativa non frammentata ma coerente.
Ce la faremo a rialzarci?
Sono fiduciosa. So che non tutto andrà bene. Ma credo che proprio negli stati di crisi si creino le condizioni per nuove opportunità. A volte agire tanto per agire non è la scelta migliore. Questo è il momento di riflettere. Di immaginare un futuro di rinascita, e di farlo per bene, perché l’uscita da questa crisi non ne generi un’altra. Solo così ce la potremo fare.