Zaccardi: «Banche, essere open conviene»
di Mattia Schieppati
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25 Ottobre 2018
Attraverso un ecosistema di idee e servizi, Fabrick, la piattaforma di open banking guidata da Paolo Zaccardi, vuole accelerare le relazioni tra mondo finanziario e mondo della tecnologia. Perché essere piattaforma aperta non è più un obbligo dettato dalla Psd2, ma l'opportunità per sviluppare innovazione che nasce dalla contaminazione ...
Prima di scendere nel merito del «che cosa fa», il punto di vero interesse guardando a Fabrick è il fatto che «ci sia». Che sia nato uno spazio di idee, prima ancora che di tecnologie, di competenze, di servizi e di business, che si pone l’obiettivo di lavorare sul tema dell’open banking in maniera - non sembri un paradosso - davvero «aperta». Che miri a fare dell’open banking una possibilità di sviluppo per una platea allargata di attori - le banche, le Fintech, ma non solo - affinché insieme producano innovazione. Un nuovo modello di impresa al servizio dell’industria finanziaria ma capace di guardare oltre.
L’esperienza di Fabrick, presentata lo scorso giugno e da subito in progressivo sviluppo, ha un cuore tecnologico, la piattaforma di open banking attorno alla quale si muovono giovani Fintech, operatori finanziari tradizionali, sviluppatori e industrie, «per definire insieme un nuovo modo di fare banca e sviluppare servizi di carattere finanziario attraverso la condivisione di Api, servizi, bisogni e strategie», spiega Paolo Zaccardi, che ne è l’amministratore delegato. «Puntiamo a creare le condizioni necessarie per passare dal modello di banca chiusa e monolitica, con tutti i servizi integrati, a quello di banca realmente aperta». La piattaforma, sviluppata sulla scorta del know-how e dell’importante track record di innovazione del Gruppo Sella, aggrega, integra e coordina Api e servizi sviluppati dagli attori dell’ecosistema, consentendo a clienti e partner di poter accedere sempre al massimo livello di innovazione disponibile sul mercato.
Ma la vocazione di Fabrick non si “limita” alla tecnologia. La volontà è quella di porsi come ecosistema, aggregando intorno alla piattaforma i diversi soggetti dell’innovazione finanziaria e mettendoli in relazione in un ambiente dove è possibile realizzare concretamente l’integrazione tra sistemi e servizi diversi per definire così nuove strategie e modelli di business. Al fianco di Api e soluzioni tecnologiche, infatti, Fabrick fornisce anche attività di consulenza per le specifiche aree di innovation management, customer experience design e business intelligence. Una settantina le realtà che oggi, dopo meno di quattro mesi, ne fanno già parte.
Un passo importante e non così scontato, per le banche, il mettersi «in condivisione» in una platea allargata. Come “convincete” i diversi attori a sposare la filosofia Fabrick?
Diciamo che siamo il soggetto giusto, nel momento giusto. Mi spiego. Nell’ultimo anno i ragionamenti sull’open banking hanno avuto un’accelerazione dovuta all’entrata in vigore della Psd2, con la necessità di comprendere come essere compliant rispetto alla nuova normativa e, in sostanza, di “assolvere un obbligo”. Una strategia difensiva, insomma. A mio parere si tratta però di un modo eccessivamente riduttivo di intendere questo tema chiave. Le prospettive che l’open banking apre hanno una portata più ampia, non sovrapponibile alle sole urgenze poste dalla Psd2. Il primo successo della nostra azione, come Fabrick - un percorso che, va sottolineato, stiamo facendo insieme a molte e diverse realtà, perché questa non è una strada che si può percorrere da soli - è stato quello di dimostrare che la Psd2 può essere un’opportunità per cominciare a ragionare in maniera diversa. Per esempio: quando “apro” i miei dati, come utilizzare al meglio la collaborazione attiva che si innesca con i partner? Come costruire innovazione insieme? E, soprattutto, quali servizi a valore aggiunto posso offrire ai miei clienti in questo nuovo scenario? Il nostro compito è da un lato far sorgere queste domande, dall’altro predisporre l’ambiente, gli strumenti e la rete di soggetti che possano darvi risposta. La nostra convinzione e le esperienze che osserviamo anche a livello europeo e mondiale ce lo confermano, è che per una banca sia meglio fare innovazione su una piattaforma aperta, anziché svilupparla al proprio interno. Le banche hanno ormai imparato a vedere nelle start-up Fintech una grande occasione di open innovation: devono però ancora affinare le modalità per approcciare a questo mondo in maniera strutturata.
Guardiamo all’altra componente-chiave di questo percorso: il Fintech italiano è già maturo per avviare rapporti strutturati di questo tipo? Ha le risposte alle domande che le banche pongono?
Se compariamo il Fintech italiano all’offerta che arriva dal mercato inglese o americano, il gap è evidente. In Italia ci sono le idee, ci sono le professionalità, c’è la motivazione giusta per sviluppare percorsi interessanti, e i 3-4 casi di successo di Fintech italiane che abbiamo visto crescere in questi ultimi tre anni lo confermano. La capacità di innovazione c’è, e lo verifichiamo ogni giorno dialogando con le Fintech con cui lavoriamo a stretto contatto. Il limite è quello dei capitali, o meglio della cultura dei capitali, che necessariamente devono sostenere questo sviluppo. In questo senso, il concetto di Fintech District, così come l’abbiamo strutturato, è fondamentale per sviluppare quello che viene definito «ecosistema», ovvero uno spazio che consenta la crescita delle start-up, e che sia un riferimento efficace per attrarre capitali, italiani e internazionali. Il percorso delle oltre 70 Fintech che oggi abbiamo a bordo dimostra che la direzione è quella giusta.
Quello dell’ecosistema è un tema ricorrente…
È la condizione fondamentale perché si produca innovazione. Ma aggiungo: per uno sviluppo strutturato del mercato è necessario che ci si abitui a usare questa parola al plurale. È necessario che crescano e interagiscano più ecosistemi, per mettere in relazione e a valore le eccellenze e le realtà innovative di diversi settori. Pensiamo a quante opportunità legate ai servizi finanziari si possono aprire avviando un dialogo con i mondi del Foodtech e del Fashiontech, solo per stare su due ambiti nei quali il Made in Italy ha davvero tante carte da giocare. Non solo: le banche stesse possono essere degli ecosistemi, dei poli capaci di sviluppare, intorno ai propri servizi, realtà Fintech focalizzate su temi specifici. Come la blockchain, per esempio, e tutte le tecnologie che riguardano l’ambito dei pagamenti.
Quanto i sistemi di pagamento rappresentano una leva per sviluppare innovazione?
Il pagamento è l’elemento centrale e comune del rapporto degli utenti nella loro “veste” di consumatore. Per questo, è un passaggio fondamentale della customer experience; l’esperienza del cliente, prima o poi, passa da lì. L’elemento distintivo delle Fintech è la loro capacità di saper misurare, adattare e migliorare con grande rapidità e agilità i servizi offerti, migliorando progressivamente l’esperienza finale dell’utente. È evidente, in questo senso, come l’ambito dei pagamenti sia quello che più mette in luce l’utilità e l’importanza, per le banche, di collaborare con il mondo fintech, per trarre vantaggio da questa “sensibilità” rispetto all’esperienza-utente che è propria delle aziende tecnologiche.
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