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29 Marzo 2024 / 05:53
Pronti al Web3, la terza fase di internet

 
Scenari

Pronti al Web3, la terza fase di internet

di Massimo Cerofolini - 15 Febbraio 2022
Crescono gli investimenti per cambiare i paradigmi della rete puntando sulla decentralizzazione. Un filo rosso unisce blockchain, bitcoin, Nft, metaverso e Dao. Ma accanto agli entusiasti si allarga il fronte di chi teme truffe e nuovi monopoli
Proviamo a immaginarlo così, come un arcipelago fatto di tante isole. Alcune hanno nomi più o meno conosciuti: blockchain, bitcoin, criptovalute, metaverso, Nft. Altre invece si segnalano con sigle che masticano soltanto gli addetti ai lavori: in quanti, per dire, hanno mai sentito parlare di Dao o di Dapp? Ecco, al momento, sono tutti territori di recente emersione e ancora scollegati uno dall’altro. Ma quando qualcuno tirerà su i primi ponti, e spostarsi da un luogo all’altro sarà facile e immediato, quando tutto sarà – come si dice - interoperabile, questo ecosistema dovrebbe prendere il nome di web3. o web 3.0. In pratica, il web decentralizzato, la terza incarnazione di internet. Ma che aspetto avrà alla fine? Sarà un ritorno all’utopia originaria della rete dove ogni nodo, ogni utente al computer, ha lo stessa identica importanza in una sorta di grande democrazia digitale? Oppure è un fenomeno già preda di nuovi e vecchi speculatori, nuovi e vecchi monopoli e nuove e vecchie centrali criminali?

Proprietari di un pezzo della rete

Andiamo per gradi. Spiega Matteo Flora, imprenditore digitale e grande osservatore della tecnologia con i suoi canali sui social network: «Il web 3.0 nasce come un’evoluzione. Il web 1.0, quello degli anni Novanta, era una rete in cui qualcuno pubblicava e noi eravamo dei semplici ricevitori limitandoci a leggere. Il web 2.0, giunto nei primi anni del Duemila, è invece diventato il web delle interazioni in cui io non sono soltanto un fruitore, ma divento anche un produttore di contenuti. E qui abbiamo visto la nascita degli influencer e degli youtuber, fino alla miriade di espressioni individuali sui social media, dove la mia voce conta tanto quella di un professionista delle testate tradizionali. Ecco, il web 3.0 aggiunge ora un terzo livello: quello della decentralizzazione della proprietà. Io, cioè, sono proprietario di un pezzo di queste cose».
Di cosa in particolare? Prima di tutto dei dati. Quelli cioè che sono oggetto della nostra profilazione: chi sono, cosa mi piace, dove vado, con chi, tutto ciò che è utile ai fini della pubblicità. Adesso questi dati sono in mano a quelle poche piattaforme che hanno abbastanza informazioni per tracciare i miei gusti e la mia identità. Nel web 3.0, invece, diventano miei. E tramite una serie di meccanismi, come le Dao, posso addirittura essere ricompensato per la cessione di queste informazioni, posso cioè ricevere indietro una parte dei proventi che io stesso genero. «Dai dati – aggiunge Flora – si passa poi a tante altre cose, come i beni digitali certificati dagli Nft o agli smart contract, contratti che si eseguono in automatico. In pratica, il sogno iniziale della decentralizzazione di internet fa un piccolo passo in più in questa direzione».

Big Tech addio?

Attenzione: non è esattamente un pranzo di gala dove i nuovi arrivati vengono accolti coi guanti. Siamo nel mezzo di uno scontro durissimo, dove tutti vanno armati contro tutti. Con investimenti di varia provenienza che convergono sulle diverse articolazioni del web decentralizzato e insieme un fuoco di sbarramento che potrebbe mandare in frantumi l’attuale assetto della rete. Nel web che conosciamo, il web 2.0, a fare da intermediari tra noi e i servizi sono infatti le big tech: Facebook, Google, Amazon, Netfllix, Microsoft, per intenderci. Ci hanno dato tante prestazioni elettrizzanti, spesso gratuite, noi ce ne siamo avvantaggiati, salvo poi scoprire una serie di ombre che vanno dalla violazione della nostra privacy, alle interferenze elettorali, ai fenomeni di odio e di bullismo, alle forme di dipendenza compulsiva che colpiscono soprattutto i giovani. Su questo volto nascosto del digitale si è abbattuto ora il pugno duro di tanti governi. Come quello cinese e quello americano, pronti a piegare gli oligopoli dei loro stessi Paesi, oltre alla Commissione europea che sta varando una stretta contro i contenuti offensivi dei social puntando su una maggiore trasparenza nell’uso dei nostri dati da parte dei titani della rete (in particolare col Digital services act e col Digital markets act). «In sostanza – pronostica Flora - siamo in un periodo storico dove tutto viene triangolato verso il concetto di web 3.0».

Il regno della blockchain

Ma cosa c’è dietro questa terza manifestazione di internet? L’anima abilitante del web 3 è la blockchain, il registro diffuso, privo di un soggetto centrale, in cui le informazioni sono distribuite tra una serie di nodi che, mediante un meccanismo di consenso, riescono a verificarne la validità. Dice Valeria Portale, direttrice dell’Osservatorio Blockchain del Politecnico di Milano: «La prima e più nota applicazione della blockchain, nata nel 2009 col protocollo del misterioso Natoshi Sakamoto, è il bitcoin, la criptovaluta sulla breccia da diverso tempo che ha conquistato la ribalta mediatica definitiva nel 2021, con annunci come quello di Tesla che ne ha sdoganato l’uso per l’acquisto delle sue auto elettriche o come l’arrivo in Borsa di Coinbase, la piattaforma che facilita lo scambio e la compravendita di criptovalute. Certo, l’atteso picco di centomila dollari da toccare entro dicembre scorso è rimasto un miraggio e, dopo aver sfiorato la vetta dei 70 mila dollari, il valore del bitcoin si è ora dimezzato. In sostanza, non proprio un investimento per deboli di cuore». A questo bisogna aggiungere lo stigma che le criptovalute come bitcoin hanno nella comunità degli studiosi: «Sono valute al servizio di traffici di droga, evasione fiscale, riciclaggio e business degli oligarchi russi, andrebbero messe al bando in tutte le economie avanzate», tuona Kenneth Rogoff, economista di Harvard. «La cosa interessante – commenta Portale - è però il fatto che le criptovalute basate su blockchain abilitino una delle funzioni chiave del web 3, ossia la possibilità di trasferire degli asset sul web. Sia in termini di moneta che di beni immateriali».

A che servono gli NFT

E qui si aggiunge un altro mattoncino al cantiere del web 3. Quello rappresentato dagli Nft, i non fungible token, certificati digitali che attestano l’unicità di beni presenti su internet che per loro natura sarebbero altrimenti replicabili all’infinito, come dimostra il crollo dell’industria musicale con la duplicazione dei brani in mp3. «L’Nft – riferisce Flora - è un gettone crittografico che rappresenta una scrittura privata, come una scrittura notarile. E garantisce il fatto che, a un certo punto, qualcuno ha dichiarato che una determinata porzione di dati era mia. Non necessariamente la proprietà del bene, tanto che alcuni stanno vendendo Nft di opere d’arte molto famose senza cederne il copyright. Ma un’appartenenza con una sua qualità particolare. In pratica, è un po’ come l’araldica: i titoli nobiliari sono stati aboliti, dunque non hanno alcun valore dal punto di vista legale. Però esistono persone disposte a spendere centinaia di migliaia di euro per avere un titolo ed essere presentati come conti o baroni. Per chi vale questa cosa? Per tutti quelli che hanno fiducia in quel registro araldico. Per tutti gli altri magari no. Idem con gli Nft: c’è un’ampia compravendita di questi diritti, di questi gettoni, dove le persone danno un valore, come per l’arte digitale, legato ad altri parametri, diversi dalla proprietà vera e propria. E tutto ciò ha un altro mercato, anche in questo caso molto volatile. Alcuni guadagnano molto, altri perdono molto».
Ci sono molti artisti che hanno toccato quotazioni da capogiro (celebre il controverso caso di Beeple che ha venduto la sua opera digitale 5000 days per 69 milioni di dollari). O scrittori come Alessandro Baricco che ha appena pubblicato la versione Nft del suo romanzo Novecento. Per non dire di brani musicali, abiti firmati per gli avatar dei videogiochi, video con sequenze celebri del basket, linee di codice, meme, prime pagine dei giornali o terreni virtuali dentro piattaforme online. Ma perché tanta gente è disposta a spendere cifre importanti per beni che non solo non esistono ma che, nella gran parte dei casi, sono comunque accessibili gratuitamente sugli schermi di chiunque? «È il principio della rarità trasferito online – risponde Giulio Bozzo, cofondatore di Reasoned Art, startup milanese che promuove l’uso degli Nft nel campo delle arti autovisive – e se è vero che tutti possono fruirne, soltanto uno però può rivendicarne la titolarità: un po’ come avere il manoscritto originale di un grande romanziere o la stessa differenza che passa tra i girasoli di Van Gogh sulla mia tovaglietta e quelli originali esposti al museo. Ci sono poi una serie di vantaggi collaterali. Il primo è una forma d’investimento su artisti che oggi sono magari sconosciuti ma che domani potrebbero diventare contesi sul mercato: comprarne un Nft in questo caso significa aumentarne il valore nel tempo. E poi c’è l’aspetto della community: in campo musicale per esempio ci sono band che, in cambio dei loro Nft, offrono posti in prima fila nei concerti o merchandising esclusivi ai propri fan più fedeli».

L'universo virtuale del metaverso

Al web 3 si sovrappone in parte il cosiddetto metaverso, l’universo virtuale – simile per avere un’idea a un videogioco come Fortnite o Minecraft – in cui ci muoviamo, interagiamo, acquistiamo, ascoltiamo concerti, tramite un nostro doppio, un avatar, che si sposta in ambienti che ricalcano quelli della vita reale. «Il metaverso – racconta la professoressa Portale – è una sorta di seconda vita virtuale in cui possiamo vivere come viviamo la vita fisica all’interno però del mondo digitale. Del metaverso se ne parla dal 1992, come luogo immaginario di un celebre romanzo di fantascienza, ma il boom mediatico è esploso con il lancio fatto a ottobre scorso da Mark Zuckerberg, rivelando il cambio di nome di Facebook in Meta». È bastato questo annuncio, con cui il fondatore del social network ha provato a distrarre l’attenzione dai sui guai con mezzo mondo, per attivare l’effetto domino: tutti i grandi nomi della tecnologia (Microsoft, Google, Roblox e via dicendo) hanno svelato progetti e stanziato fondi per disegnare questo nuovo universo, mentre frotte di ingegneri sono migrati armi e bagagli nei nuovi reggimenti del web decentralizzato. Ancora nessuno si sa di preciso quali forme assumerà il metaverso (o meglio, l’insieme dei metaversi): se un luogo accessibile coi visori di realtà virtuale, se con le lenti e gli schermi di realtà aumentata, se con il monitor del cellulare, se con un misto di queste soluzioni o se farà la stessa fine ingloriosa di Second life. Ci vorrà qualche anno per scoprirlo. Quello che però fa la differenza è proprio l’aspetto del web 3. «Con un web decentralizzato – continua Portale – non sto dando le mie informazioni a un unico attore che mi fa atterrare dentro il suo metaverso. Ma tutto il mio patrimonio come utente, dalla mia identità al mio aspetto, rimane disponibile a me, che posso trasportarlo in altri metaversi. Questo è un fenomeno importante che cambierà il modo di andare online».

Mondo virtuale, business reale

Al di là dei colossi tradizionali e dell’apertura di negozi virtuali da parte di marchi come Nike e Gucci, i nomi da tenere d’occhio sono le nuove realtà basate su blockchain. Come The Sandbox o Decentraland, celebre per vendere terreni virtuali al prezzo di un attico reale di New York. Prosegue Portale: «Questi, a differenza degli attuali padroni di internet, rispettano il principio che tu sei proprietario delle tue informazioni e che l’app non ha diritto di proprietà su quello che succede nel suo mondo».
Fin qui temi di cui bene o male si è sentito parlare. E ora arriviamo alla parte meno conosciuta del web 3. Proviamo a capire cosa sono le Dao, acronimo che sta per Decentralized Autonomous Organization, strutture organizzative impiegate, sempre più frequentemente, per lo svolgimento di attività d’impresa. Secondo il suo teorico, Vitalik Buterin, creatore della rete blockchain Ethereum, si tratta di realtà gestite da un software che se ne occupa in maniera “autonoma” rispetto ai suoi partecipanti. Cosa significa, in pratica? Stefano Pepe, imprenditore digitale tra i pionieri della blockchain in Italia, prova a spiegarlo con una metafora: «Prendiamo una società con un consiglio di amministrazione e un amministratore delegato. Nella visione classica sono loro a prendere le decisioni per conto dell’azienda. Con il Dao, invece, le scelte vengono fatte dai singoli utenti che in proporzione ai token di cui dispongono votano caso per caso».
Aggiunge Flora: «Un fenomeno emergente in questo senso riguarda il concetto di DeFi, la finanza decentralizzata, che si basa proprio su Ethereum. È una delle tecnologie più promettenti e permette di scrivere contratti che vengono automaticamente eseguiti sulla blockchain. Per esempio, posso scambiare un tipo di moneta virtuale con un’altra, immediatamente, senza passare da un cambiavalute. Oppure posso chiedere prestiti direttamente a diversi utenti sulla rete, coperti con garanzie automatiche che vengono fornite all’istante».
In rete si trova già una fioritura di applicazioni che in omaggio all’iniziale di decentralizzazione prendono il nome di dApp. Come Filecoin, una sorta di Dropbox della blockchain per salvare i dati nel cloud senza un server centrale, ma sui pc di tanti utenti, ognuno dei quali viene ricompensato per la porzione di spazio che concede. O come alcuni nuovi social network, che si propongono di ricompensare in criptovaluta i post più coinvolgenti. Ma ci sono anche software che pagano chi guarda una pubblicità o che creano marcatori temporali sui documenti. E siamo appena all’inizio.

Ombre sul web 3

Questi in definitiva gli aspetti tecnici del web 3, su cui si è accesa una diffusa eccitazione che coinvolge nomi vecchi e nuovi della galassia digitale, con tanto di cantori e di siti che promettono alle masse profitti rapidi, facili e stellari. Ma a parte il massiccio avvento di truffatori che piazzano criptovalute, Nft e vendite sul metaverso di dubbia qualità, ci sono anche ragioni più profonde che invitano alla prudenza. Dice per esempio Denis Roio, uno dei più rinomati hacker etici europei, conosciuto in rete come Rasta Coder (italianissimo ma con base ad Amsterdam): «Molte delle tecnologie nate sulla blockchain avevano inizialmente l’intento di restituire alla rete la sua dimensione originaria, priva di poteri dominanti e dalla natura decentralizzata. Con tempo, però, il mercato ha riprodotto le stesse dinamiche di oligopolio emerse nell’era delle big tech. Pensiamo al bitcoin, tecnologia straordinaria e innovativa, che però ormai è una moneta con piattaforme centralizzate che ne regolano gli scambi e che ha permesso di accumulare ricchezza nelle mani di pochi a scapito di molti. O pensiamo ai Dao, organismi all’apparenza partecipativi, ma che – come dimostrano recenti inchieste giornalistiche – finiscono sotto il controllo di poche persone».
Insomma, un fenomeno, il web 3, ancora tutto da definire, con una serie di chiaroscuri e – per il momento – una totale assenza di regolamentazioni. Di sicuro un cambiamento ci sarà. E toccherà tanti ambiti della nostra vita, comprese ovviamente le nostre finanze. Dentro quale internet navigheremo tra cinque anni, però, è troppo presto per dirlo.
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