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06 Ottobre 2024 / 07:53
Pisano: "Le banche? il mio modello per lanciare gli uffici pubblici sul web"

 
Scenari

Pisano: "Le banche? il mio modello per lanciare gli uffici pubblici sul web"

di Massimo Cerofolini - 30 Settembre 2019
Intervista al neo ministro per l’Innovazione Tecnologica e la Digitalizzazione Paola Pisano: “Tutti usiamo l’home banking senza problemi, perché non fare lo stesso coi servizi della pubblica amministrazione? Gli sportelli diffusi sul territorio saranno ottimi partner per le opportunità digitali che vogliamo offrire ai cittadini. E vogliamo collaborare con le banche per sostenere insieme i progetti degli innovatori italiani”
“Le banche? Sono il modello vincente, quello da imitare”. Ex assessore del comune di Torino, 44 anni, madre di tre figli, una lunga militanza universitaria sui temi del digitale, Paola Pisano è il nuovo ministro per l’Innovazione tecnologica e la digitalizzazione (“ministro per me è meglio, ma va bene anche ministra”). Nel suo ufficio, al primo piano di palazzo Brazzà, proprio dietro Fontana di Trevi, snocciola le prime proposte con cui battezzerà suo incarico: l’app IO per portare tutti i servizi di qualsiasi ente pubblico in un’unica app; il potenziamento di Spid, la chiave per l’identità digitale, azzoppata da problemi di ogni tipo; lo snellimento dei tempi per rilasciare la carta d’identità elettronica. E quando le si chiede conto dei ritardi della nostra burocrazia nella corsa globale del web il suo pensiero vola subito al modo in cui le banche hanno trasformato velocemente il loro rapporto coi cittadini: “Tutti, o quasi, controlliamo il conto in banca senza grossi problemi, usando password sempre più sicure. Tutti tocchiamo lo schermo del cellulare e in pochi istanti possiamo fare un bonifico, ricaricare il cellulare, pagare le tasse o investire in qualche azione. Ecco, perché non si può fare lo stesso coi servizi della PA?”. Sì, è proprio al modello dell’home banking che il ministro pensa per il grande progetto di trasformazione digitale del nostro Paese. Ma con quali strategie e con quali mezzi? Ecco cosa ci racconta in questa intervista.
L'innnovazione, la banca digitale, la trasformazione e i nuovi servizi della PA, per cittadini e imprese, saranno al centro de Il Salone dei Pagamenti (6, 7 e 8 novembre al MiCo di Milano), il grande evento di riferimento per tutti, banche, imprese e  pubblica amministrazione, professionisti ed esercenti, giovani e studenti. Per capire i trend dell'innovazione tecnologica e dei digital payment, le nuove soluzioni, le esperienze estere, i progetti e le idee ...

Ministro Pisano, tanto per cominciare, che ruolo possono occupare le banche nell’opera di digitalizzazione del Paese, da sempre in coda alle graduatorie europee sull’accesso a Internet?

Prima di tutto le banche hanno filiali diffuse e capillari in tutta l’Italia. E questa caratteristica le rende ottimi partner per recuperare i ritardi sui servizi ai cittadini che vogliamo diffondere. Non solo. Stiamo osservando molto attentamente le banche online perché hanno creato una realtà digitale a cui i cittadini si appoggiano senza particolari problemi.  È un modello che stiamo studiando e che vogliamo replicare anche nella PA. E poi le banche possono supportare progetti di innovazione di grande valore per il Paese, finanziando i talenti che altrimenti fuggirebbero all’estero. E possono collaborare con noi in progetti che portano benefici sia ai nostri cittadini e sia ai loro clienti. Che poi sono le stesse persone.

Qual è la prima cosa che intende fare col nuovo incarico?

La cosa più importante è riuscire a erogare i servizi della nostra PA in modo semplice e chiaro per tutti i cittadini e per tutte le imprese in Italia. E soprattutto farlo in modo sempre più digitale. Quindi, una delle cose su cui spingerò molto è l’applicazione IO, che è una piattaforma dentro la quale si potranno trovare pian piano tutti i servizi di qualsiasi ente pubblico. A fine anno lanceremo l’app in versione test su tutto il territorio e poco alla volta la miglioreremo. È lo stile di chi innova: non si può aspettare qualcosa di perfetto per uscire, bisogna sperimentare e correggere. Ma una cosa è importante: per migliorare i servizi dobbiamo farci supportare dai cittadini.

E che tipo di servizi troveranno i cittadini dentro IO?

Potranno trovare i servizi a cui sono abituati. Con un clic su Internet anziché la fila allo sportello. Per esempio l’iscrizione al nido dei figli, il cambio di residenza, il pagamento di una multa. E poi potranno trovare informazioni che la pubblica amministrazione ha su di loro e che possono diventare oggetto di comunicazioni utili, come la scadenza dei documenti, i termini di scadenza per pagare un tributo e altri messaggi di questo tipo. Tutte queste informazioni al cittadino devono essere raggruppate all’interno della piattaforma in modo personalizzato e immediatamente accessibile. E questo è il nostro obiettivo.

Per accedere a questi servizi sarà potenziato Spid, l’identità digitale, ossia una sorta di superpassword, una chiave di accesso per dialogare con gli uffici pubblici. Il problema è che al momento funziona piuttosto male e, a parte i soggetti spinti dai vari incentivi – come il reddito di cittadinanza o il bonus cultura - non si sa bene cosa farsene.

È vero, ci sono dei problemi tecnici. Però sono superabili. Non capisco perché, come dicevo, accedere ai servizi bancari sia un fatto che si accetta di buon grado e fare le stesse cose con i servizi della PA diventi un problema paralizzante. L’importante è avere le idee chiare. Da un lato, anzitutto, deve essere stabilizzato il fatto che Spid sia gratuito: la legge prevedeva che non avrebbe avuto costi per i primi due anni, ma è bene chiarire che anche in futuro non ci saranno oneri per il cittadino che ne faccia richiesta. Entro fine anno normeremo questo aspetto. Dall’altro lato, bisogna capire esattamente qual è il modello di business dei provider che erogano Spid e stabilizzarlo dal punto di vista tecnologico. Tutte cose che finora sono mancate ma che si possono fare agevolmente. Magari anche con l’aiuto delle banche.

Un altro aspetto su cui lei punta molto è la cittadinanza digitale, ossia assicurare gli stessi diritti civili del mondo fisico anche quando siamo online. Addirittura lei propone di estendere questo status anche ai neonati. Che significa?

Un bambino quando nasce acquista dei diritti nel mondo reale e questi diritti li acquista anche nel mondo digitale. Allora, è giusto che, quando il piccolo comincia ad avvalersene, possa farlo in modo diretto e riconosciuto. Ad esempio, quando avrà necessità di accedere ai servizi scolastici dovrà poterlo fare con la sua identità digitale, con il suo Spid, così come fa oggi quando entra in classe con la sua identità analogica.

Negli anni passati tutti gli annunci di riforma della PA all’insegna del digitale sono naufragati soprattutto per il freno della vecchia guardia burocratica e per l’età media dei dipendenti pubblici, tra le più alte d’Europa. Ai nuovi linguaggi del digitale si oppone cioè la zona di conforto delle procedure cartacee, lente, inefficienti, ma ben conosciute.  Come superare questi ostacoli?

Il fatto che abbiano creato un ministero e che vi abbiano messo a capo una donna sottolinea la volontà di creare un percorso comune che punti alla digitalizzazione e all’innovazione, a partire dalle politiche industriali che grazie alle nuove tecnologie possono far prendere slancio al nostro Paese. Sicuramente non è semplice digitalizzare una Nazione e i suoi servizi. Ma il progetto che stiamo lanciando si divide in due fasi. La prima, appunto, riguarda gli strumenti partiti tre anni fa insieme al Team della trasformazione digitale che creano le cosiddette piattaforme abilitanti, sulle quali poggeranno poi i servizi digitali. Ad oggi abbiamo PagoPa, che è il pagamento online della pubblica amministrazione, abbiamo Anpr, che è l’Anagrafe nazionale unica e concentra tutti i dati dei cittadini in un unico registro. Abbiamo Spid, con i suoi problemi ma anche le sue potenzialità. Questo abilita la digitalizzazione. Sulla cima poi, e questa è la seconda fase, dobbiamo mettere dei servizi. E dobbiamo creare una governance affinché si possano gestire in modo uniforme, coerente e uguale in qualunque punto dell’Italia dove il cittadino si trova.  In altre parole, dobbiamo diventare come un unico comune fatto da 60 milioni di cittadini.

Però 4 su 10 di questi cittadini non vanno praticamente mai su Internet. Questo è un problema enorme per la diffusione della PA digitale. Come risolverlo?

Questo è un grande freno, un grosso problema, una dura battaglia che non possiamo vincere da soli come PA, ma che dobbiamo affrontare insieme al settore privato, ma anche con altri cittadini e con le scuole, per riuscire a superare quello che viene chiamato il “digital divide”, il grande fossato che separa chi si avvantaggia del web da chi ne resta ai margini. L’infrastruttura di connettività è adeguata, siamo forti su questo, ma ci manca sempre l’ultimo miglio. Manca la diffusione dei servizi. E manca la diffusione delle competenze, perché a oggi molti cittadini usano Internet ma lo fanno in modo incompleto, giusto per chattare e mandare messaggi, ignorando i tanti canali di opportunità che la rete può offrire. Quindi la formazione è importante, la diffusione è importante. Se non si fa questo succederà che i cittadini con un’alfabetizzazione digitale diventeranno sempre più rilevanti, ricchi e realizzati, mentre gli altri saranno sempre più poveri e sempre più distaccati dalla realtà. Noi che ci occupiamo di tecnologia, ci dobbiamo occupare anche di impatto sociale e di etica. Dobbiamo portare tutti a bordo. Se no non siamo una pubblica amministrazione.

L’incarico che lei ha ricevuto non riguarda solo la digitalizzazione del pubblico ma anche il supporto alle imprese e al mondo del lavoro per ammodernare i processi economici in chiave tecnologica. Anche qui l’Italia si segnala sempre per essere in coda nelle classifiche europee sull’uso di Internet come mezzo per allargare i mercati, per acquisire nuove competenze, per mandare avanti un’azienda davanti alla sfida globale. Qual è la prima cosa che vorrebbe vedere nel mondo dell’imprenditoria italiana?

Sicuramente dobbiamo fare un patto, noi del pubblico e gli imprenditori. Dobbiamo lavorare insieme. Perché la digitalizzazione si può portare nelle aziende ma è un progetto che ha bisogno di essere comune. Da un lato, noi dobbiamo introdurre leggi per semplificare i processi burocratici del mondo privato, dall’altra però le imprese si devono impegnare a fare certi procedimenti. La cosa più importante è attrarre innovazione all’interno del nostro territorio, avere una politica industriale comune tra tutti i vari ministeri, proporre una strategia di respiro nazionale. L’innovazione non è solo nel digitale. L’innovazione è anche quella di altri settori come la robotica, l’aerospazio, le telecomunicazioni, dove noi siamo molto forti e dove quindi è possibile diventare un Paese all’avanguardia. Dobbiamo però fare più sinergia e aprire l’Italia agli innovatori. Dare il diritto a tutti di poter innovare. Non è l’innovatore o la start-up che debbono sottostare all’azienda tradizionale e alle nostre regole. Siamo noi che dobbiamo osservare chi innova e capire se ciò che propone ha un impatto positivo in termini di nuove competenze, nuovi posti di lavoro e ricadute sociali. Siamo noi a doverci adeguare a lui, non lui a noi. Perché altrimenti scoraggeremmo anche il giovane più intraprendente che alla fine lascerà l’Italia e se ne andrà a innovare in un altro Paese.

Per quanto riguarda questo aspetto, che ne è del Fondo nazionale innovazione che doveva finanziare queste start-up?

Il Fondo di innovazione è già stato strutturato. Si è insediato un nuovo esecutivo e ci vuole un po’ di tempo per renderlo coerente con gli indirizzi del governo. Entro fine ottobre il Fondo partirà, ma ora guardiamo alla governance. Che significa? Che non deve essere la strategia di innovazione al servizio della finanza e del fondo, ma deve essere il fondo a supportare una strategia comune tra ministeri. E quindi il legame tra noi e il fondo deve essere molto forte.

Lei ha definito il suo ministero una start-up e come tale si sta strutturando, pescando i talenti dell’innovazione in modo molto agile e piuttosto distante dalle procedure di assunzione tipiche della PA.

Noi siamo in start-up, che significa che non abbiamo ad oggi nulla. Abbiamo cominciato a selezionare i primi collaboratori con un solo criterio: scegliamo le competenze. Le persone che lavoreranno con noi, anche quelle ereditate dal Team della trasformazione digitale, sono persone che devono garantirci competenze e capacità di raggiungere gli obiettivi. Punto. Se questa garanzia manca non si può lavorare dentro questo ministero. La selezione, quindi, è abbastanza dura. Per il resto avremo due unità operative: una che si occuperà di digitalizzare i servizi pubblici, l’altra che lancerà politiche innovative e industriali all’interno del Paese. Il mio impegno su questi due fronti sarà totale.
 
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