Pagare con i dati? Quattro scenari per un futuro prossimo
di Massimo Cerofolini
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20 Settembre 2019
Si può pensare ai dati che generiamo su Internet come a un bene di nostra proprietà da utilizzare come forma di pagamento? Oggi sembra quasi una provocazione, ma potrebbe diventare una possibilità. Un rapporto di Privacy International ipotizza 4 diversi scenari: i dati come forma di proprietà tradizionale, come salario, come bene pubblico e come diritto da rispettare con regole aperte e trasparenti …
I nostri dati come un bene di nostra proprietà al pari dell’auto o del conto in banca. E se questi beni ci appartengono, questi codici che svelano ogni aspetto della nostra persona, è possibile trasformarli in una nuova forma di pagamento? Quello che oggi sembra una provocazione, in un futuro neppure troppo lontano, potrebbe diventare una possibilità: riprenderci il controllo della mole di informazioni che rilasciamo online, spesso in modo del tutto inconsapevole, e utilizzare questo patrimonio digitale come moneta corrente. Ma davvero una soluzione del genere rimetterebbe in equilibrio il rapporto, oggi sbilanciato, tra gli utenti della rete e le grandi aziende del digitale che possono utilizzare i nostri dati con forme di pubblicità mirate? A rispondere a questa domanda è Our Data Future, un rapporto di Privacy International, organizzazione britannica a difesa dei dati personali, che ipotizza quattro diversi scenari per un futuro collocabile intorno al 2030: i dati come forma di proprietà tradizionale, come salario, come bene pubblico e come diritto da rispettare con regole aperte e trasparenti.
“Pagare con i nostri dati – commenta Valentina Pavel, avvocata rumena di stanza a Londra, che con la carica di 2008-2009 Mozilla-Ford Fellow ha curato il rapporto per l’associazione – è una delle proposte più popolari che circolano. Ma questo entusiasmo riflette una scarsa conoscenza sulla reale natura dei dati. Ad esempio, i dati che finiscono online non sono materiali e non possono essere toccati. Possono essere qui ma anche ovunque. Moltiplicarli non costa quasi nulla. E non è facile attaccarci sopra una bandierina per reclamare: questa è cosa mia. Invocare un diritto di proprietà dei dati non offrirà sulla distanza alcun vantaggio reale. Anzi. Finirà per rafforzare gli attuali squilibri”.
Diritto di proprietà
La prima delle quattro previsioni contenute in Our Data Future è quella di riconoscere il diritto di proprietà sui dati. Nel senso classico. Con la conseguenza che queste informazioni da noi prodotte sul web diventino qualcosa di vendibile. Sotto forma di abbonamento o come asta al miglior offerente. Sembra un buon inizio. Ma secondo Pavel è soltanto un’illusione destinata presto a spegnersi: “Dobbiamo stare molto attenti a muoverci in questa direzione, perché gli utenti non hanno una comprensione reale del modo in cui vengono prodotti i dati sul nostro conto, quelli che poi ci identificano in modo molto preciso. Non ci sono soltanto quelli generati consapevolmente, come le foto e i post pubblicati sui social media. Ma anche quelli che si formano in modo indiretto: il consumo di energia che produciamo, la storia delle nostre localizzazioni istante per istante, quella delle nostre navigazioni su internet, che tipo di apparecchio usiamo, le emozioni abbinate ai nostri comportamenti, le infinite forme di correlazione tra i diversi eventi della vita e via dicendo. Ecco, la quantità di dati che creiamo è largamente superiore a quanto possiamo immaginare. E tutto questo bagaglio di informazioni viene raccolto e usato dalle aziende per analizzare chi siamo, predire i nostri desideri, disegnare profili personalizzati con cui condizionare le nostre scelte attraverso messaggi sagomati su chi siamo”.
Il pericolo insomma è che le persone in stato di bisogno economico potrebbero alla fine cedere più dati del normale. In modo da aumentare le proprie entrate. Ad esempio lasciandosi geolocalizzare in ogni momento della giornata o autorizzando il monitoraggio costante del loro stato di salute. “Le ricadute sui diritti dei singoli utenti – spiega Pavel – potrebbero essere molto negative, mettendo i più indigenti in balia di società spregiudicate". Privacy International, per esempio, ha scoperto che la gran parte dei siti che si occupano di depressione già oggi condivide i dati degli utenti con inserzionisti, colossi hi-tech e data broker, mentre alcuni test online per la depressione passano i risultati a compagnie in grado di bersagliare con pubblicità mirate.
Con questo modello, inoltre, non si coglierebbe neppure l’obiettivo di aumentare la concorrenza tra le aziende del digitale, perché i soli a potersi permettere l’acquisto dei dati sarebbero i colossi di oggi che farebbero piazza pulita di altri soggetti interessati a entrare nel mercato.
Fornire dati è ... un lavoro
Il secondo scenario di Privacy International è quello in cui fornire i dati diventa un vero e proprio lavoro. L’utente passa le giornate su un’unica piattaforma e riceve uno stipendio per le ore spese a cliccare, mettere like, commentare sui social, fare compere online. “In questo caso – dice Pavel – le grandi aziende del digitale spingerebbero gli assunti a generare più dati possibili in modo da accrescere il proprio potere. E ancora una volta a rimetterci sarebbero le persone più deboli, spinte per necessità a cedere grandi quantità di dati. Inoltre, quello che una persona condivide oggi non è detto che in futuro non possa essere usata contro di lei. Un grosso rischio, insomma, perché i benefici non sono paragonabili ai rischi: il salario ricevuto non compenserà mai i potenziali pericoli”.
I dati in un archivio pubblico: vantaggi e rischi
Scenario numero tre: i dati vengono collocati in un archivio pubblico. Quello che le persone producono su internet viene filtrato da algoritmi che lavorano per suggerire politiche vantaggiose alla comunità. Se, grazie al dato prodotto dai nostri movimenti in auto, si evidenziano i flussi del traffico, un comune può migliorare la circolazione stradale con scelte conseguenti. Non solo. Governi e cittadini possono chiedere alle società private di pagare per avere accesso ai dati pubblici, mantenendo al contempo un controllo collettivo sulle informazioni personali. Tutto bene? Ancora una volta la risposta di Privacy International è critica. Argomenta Pavel: “Concentrare i dati in un solo archivio centrale espone tutti al pericolo di attività criminali. Non credo che potranno mai esistere infrastrutture capaci di mettere in sicurezza una tale concentrazione di dati in un unico luogo. In più, cosa accadrebbe se un governo democratico venisse rovesciato da una dittatura? O se i responsabili venissero corrotti da compagnie senza scrupoli? In pochi istanti la vita di milioni di cittadini finirebbe sotto un controllo che non ha precedenti”.
La gestione della privacy. Il valore del Gdpr
Resta allora l’ultimo degli scenari, quello basato sul diritto dei dati. In pratica, il meccanismo è tutto dentro una dashboard, una sorta di cruscotto digitale. Si tratta di un’unica schermata sul pc o sul cellulare, da cui appaiono in modo chiaro e trasparente tutte le diverse articolazioni della nostra privacy. Qui l’utente può gestire con facilità il consenso al trattamento dei suoi dati, sapere in ogni istante dove si trovano quelli che ha rilasciato e conoscere in che modo questi vengono utilizzati. Il tutto sotto il controllo del Garante della privacy. “In più – aggiunge Pavel – il sistema dovrebbe avere uno standard aperto, con codici trasparenti, utilizzabili e migliorabili da tutti. Ed essere interoperabile, per consentire agli utenti di cambiare servizio, social network o chat in pochi secondi, garantendo la concorrenza tra gli operatori. È il modello che preferisco, quello che prosegue la strada aperta dalla normativa europea sulla privacy, il Gdpr. Certo anche questo scenario ha i suoi rischi, ma i benefici per tutta la comunità sono di gran lunga maggiori”.
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