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27 Aprile 2024 / 03:46
Digitale e green, ecco il progetto collettivo per ripartire

 
Scenari

Digitale e green, ecco il progetto collettivo per ripartire

di Massimo Cerofolini - 23 Giugno 2020
 
Intervista al filosofo dell’informazione Luciano Floridi: “Oltre l’80% del valore delle 500 maggiori aziende americane è basato su beni immateriali. Il passaggio dalla centralità delle cose a quella dell’esperienza rappresenta una grandissima occasione per il nostro Paese. E il verde del capitalismo ambientalista unito al blu del capitalismo digitale possono essere due forze potenti nel rilancio della specificità italiana” …
Investire sul verde, investire nel blu. Possono cambiare i dettagli, le tattiche, le priorità. Ma, polemiche a parte, quasi tutti i piani presentati nei giorni degli Stati generali, a cominciare da quello del capo della task force governativa Colao, mettono questi due ingredienti alla base del piatto per rilanciare l’economia italiana atterrata dal Covid: il verde della sostenibilità e dell’ambiente, il blu del digitale e dell’informazione.
Due colori segnaletici rivolti anche al mondo delle banche, sia per orientare le strategie creditizie e finanziarie, sia per rafforzare i valori dell’identità aziendale nella comunicazione e nel marketing. E proprio nei giorni della quarantena è uscito un libro che sintetizza questa azione a tenaglia per riformare il nostro Paese. Si intitola, appunto, “Il verde e il blu”, e a scriverlo è uno dei più acuti osservatori della contemporaneità: Luciano Floridi. Docente di Filosofia ed Etica dell’Informazione all’Università di Oxford, dove dirige il Digital Ethics Lab, ospite tra l’altro di importanti eventi promossi dall’ABI, Floridi snocciola nel suo saggio le ragioni e le forme di questa scommessa sul futuro.
E si toglie anche qualche sassolino dalla scarpa, in risposta a quelli che chiama gli “intellettuali critici”, sempre pronti a sollevare mille obiezioni su ogni progetto, senza indicare nessuna alternativa.

Professore, partiamo proprio da questa opposizione diffusa, che si ripropone spesso davanti alle proposte di digitalizzare il Paese. E su cui vanno spesso a sbattere le buone intenzioni. Sembra quasi che in molti prevalgano il rimpianto per la normalità precedente all’epidemia e la fretta di mettersi alle spalle la grande esercitazione digitale fatta dagli italiani in queste ultime settimane. È così?

Penso che per molti la prima reazione una volta usciti dal lockdown sia stata quella di gettare il computer dalla finestra. Comprensibile vista la quantità di tempo che gli abbiamo dedicato per tre mesi. La seconda però dovrebbe essere quella di andarlo a riprendere, perché Internet ci ha salvato la vita. Non bisogna essere ingrati, ma ragionevoli. Eppure ho visto intellettuali firmare appelli per tornare alle vecchie abitudini, come se il mondo prima del Covid-19 fosse un luogo ideale e non un concentrato di problemi ambientali, sociali ed economici. Non è così, non possiamo avere nostalgia della muffa. Dobbiamo ammettere che le cose non andavano affatto bene prima, che non eravamo contenti. E che questa è una grande opportunità per ricominciare. Con una battuta mi chiedo: quand’è che pianifichi la rivincita? Quando stai perdendo. Ecco, ora stiamo perdendo, approfittiamo di questa crisi per pianificare la riscossa.

Non sprechiamo questa crisi, insomma. Eppure i progetti innovativi di cui si parla vengono spesso impallinati da critici di tutto rispetto con argomentazioni che lei considera unilaterali e un po’ oziose.

È un modo molto semplice per avere tanto consenso: descrivere le cose come bianco o nero, vero o falso, sì o no, o con noi o contro di noi. Il mondo, in realtà, è sempre un bilanciare e un mescolare i diversi fattori in gioco. E dunque, che senso ha porre la questione in termini di “digitale sì o digitale no”? La domanda da fare, piuttosto, è: quanto e come gestire il digitale al meglio e nel contesto giusto? Sento invece proporre cose che sembrano un catalogo degli anni Novanta. Come costringere i ragazzi a lasciare il telefonino fuori dalla classe. O riproporre la vecchia lezione frontale con il professore che parla per un’ora dalla cattedra, ignaro del linguaggio a cui i giovani sono abituati. Sul serio? Oggi il digitale pervade tutte le nostre esperienze e bisogna sapere come gestirlo al meglio, bisogna imparare a fare quella cosa che ho chiamato “onlife”: ossia un po’ di vita analogica e un po’ di digitale, profondamente integrate tra loro, secondo criteri e dosaggi di volta in volta da valutare. Senza linee divisorie. Come in cucina, dove ho strumenti di un tipo e di un altro per raggiungere un giusto equilibrio di sapori. In altre parole, per criticare ci vuole poco: basta essere veloci e scaltri; per dire qualcosa di propositivo serve invece profondità. E le critiche e le interpretazioni che leggo spesso sui giornali non mi sembrano profonde, ma solo profondamente superficiali. Non mi danno cioè mai una bella risposta, sulla quale poter anche essere in disaccordo, ma che replichi alla domanda: "va bene, non ti scaldare, assumiamo che tu abbia ragione, ma allora che facciamo?".

Di qui la sua proposta, che nel libro si declina in cento azioni, tutta giocata tra sostenibilità e digitale. Nei giorni scorsi, prima il governatore della Banca d’Italia Visco, poi il capo della task force Colao e molti degli interventi sentiti agli Stati Generali dell’economia, hanno battuto su questi due tasti. Perché, a suo avviso, devono diventare la priorità della politica, della finanza e dell’economia nei prossimi mesi?

Se vogliamo entrare con un po’ di coraggio nel Ventunesimo secolo, che ci ha visto sempre molto titubanti come italiani, dobbiamo adottare una mentalità adeguata ai tempi. Non possiamo pensare che il modo in cui facevamo le cose nel Novecento, secolo in cui sono nato, vada ancora bene. Non perché era sbagliato, ma perché bisogna guardare a dove ci sta portando l’era digitale: le nuove modalità di fare economia, la globalizzazione, la competizione internazionale, ma anche il modo di fare politica o di fare credito, tra pagamenti online e algoritmi finanziari, tutto ciò deve essere all’altezza di una società dell’informazione matura. Ecco, in questo contesto, pensare che la rivoluzione digitale non abbia fatto la differenza e che si possa tornare ai vecchi riti, vuol dire mettere la testa nella sabbia e pensare che se non la vedo non esiste.

Finanziare l’economia sostenibile e la digitalizzazione del Paese non dovrebbe essere un fatto ideologico. Eppure lei vede il pericolo di contrapposizioni politiche basate più sul senso di appartenenza che sulle valutazioni reali dei progetti. La verità, scrive nel libro, va cercata nelle sfumature, sapendo che può cambiare e richiede scelte flessibili e articolate.

Purtroppo la nostra geometria è un po’ sempliciotta. O stai al centro, o stai a sinistra o stai a destra, come se ci fosse una riga. Vorrei tanto che questa geometria cambiasse: gran parte dei progetti disponibili su digitale e ambiente non stanno né al centro, né a sinistra, né a destra. Stanno dalla parte giusta per il Paese, tutto insieme. Ricorrere a categorie del passato, pensare che la politica sia fatta ancora dai partiti, dal tesseramento e dalla base, appartiene a una mentalità novecentesca, da abbandonare. Io a questo punto penserei molto di più a una società civile che fa pressione su una società politica per fare le cose fatte bene. E a una società politica che risponde a quella civile comportandosi di conseguenza. Una dinamica di questo senso ha più futuro.

Qual è la visione politica che dovremmo avere adesso?

Il progetto che abbiamo avuto in Italia dal dopoguerra a oggi ha favorito la visione individuale, con lo Stato che assicura ai singoli i mezzi per fare le cose nei limiti della legalità. Questo individualismo ha funzionato bene ed è una cosa positiva. Ma è solo una gamba per riprendere la corsa. Ci vuole l’altra gamba, che è quella della solidarietà, della collettività. È come se uno chiedesse a due coniugi qual è il progetto dell’uno e quale quello dell’altra, senza domandare loro cosa vogliono fare come famiglia. Ecco, col Covid ci siamo accorti che serve un progetto collettivo, in cui ci possiamo ritrovare tutti insieme. Perché tutti insieme non si fa solo meglio, ma si fa anche molto di più. Se siamo in cinque a spingere la macchina forse riusciamo a portarla dal meccanico e ripararla. Ma se sono solo io a spingere e me ne torno a casa, non posso dormire tranquillo, perché non ho fatto assolutamente niente. È stato uno sforzo inutile. Insomma, dobbiamo imparare a coltivare un progetto sociale. Non per togliere quello individualista, ma per aggiungere un progetto che permetta all’Italia di vivere il Ventunesimo secolo da protagonista.

Sul digitale scontiamo un ritardo storico e ci confermiamo fanalini di coda in Europa per connettività e uso dei servizi online da parte dei privati e delle aziende. Ma la spinta a portare il Paese su Internet non può oscurare alcuni problemi di fondo. Per esempio, molti non apprezzano il monopolio dei grandi giganti del web a cui abbiamo di fatto delegato la gestione di Internet e dei social network, sacrificando parte della nostra vita privata in cambio dei loro servizi gratuiti o comunque efficienti. Come uscirne?

È difficile, ma si può fare. Lo spazio in cui viviamo, quella che chiamo Infosfera, è sempre più fatto di informazioni e l’esperienza quotidiana è un continuo impasto tra presenza fisica e connessione digitale, spesso senza che ci si accorga delle differenze. In questo quadro chi è che ha le chiavi del parco che la rete ci mette a disposizione? Se fosse una città, l’avremmo mai date a un privato, magari una brava persona, che però fa come vuole e decide chi e come può entrare? Abbiamo avuto circa 30 anni per capire che questo parco, ossia lo spazio di informazioni in cui siamo immersi, è stato organizzato in termini di mercato, di commercializzazione, di affari. Poi è diventato uno spazio fondato soprattutto sulla pubblicità e in questo schema abbiamo un po’ perso il controllo sociale e politico. È ora di recuperarlo. E questo si può fare mettendo in equilibrio lo Stato da una parte e le grandi aziende dall’altra.

Concretamente?

Semplice. Quando alla società serve di più l’azione delle imprese private affidi loro la gestione della rete, ma quando l’interesse pubblico coincide con quello dello Stato si cambia registro e si passano le chiavi. Si può fare. Lo abbiamo visto con l’app Immuni sul Coronavirus, dove Apple e Google hanno messo a disposizione le infrastrutture, ma il controllo dei dati è rimasto nelle mani dei cittadini. E possiamo immaginare molte altre situazioni in cui l’equilibrio dei poteri possa essere spostato sulla gestione pubblica. Dovremmo essere noi come società civile a mettere qualche regola in campo e negoziare accordi nei diversi ambiti della vita sociale ed economica. I quali a mio avviso dovrebbero poggiare su quattro basi: più legislazione, più autoregolamentazione, più competizione e più pressioni sociale.

Anche sull’altro polo della sua proposta, l’ambiente, ci si scontra spesso con diverse resistenze. Specie ora che il bisogno di rilanciare i consumi sembra mettere da parte i propositi di usare meno plastica e meno fonti di energia inquinanti. Lei nel suo libro vede invece un’alleanza possibile tra progetti ecologici e profitti economici. A condizione però di passare da un capitalismo dei consumi a un capitalismo della cura. In pratica, un capitalismo dell’esperienza, su cui l’Italia, con le sue risorse di cultura, arte, turismo e cibo, sarebbe imbattibile. Forse il problema è che non ci crediamo abbastanza.

È questo il punto. È come se l’Italia avesse capacità straordinarie di vittoria, ma poi pensasse che giocare i suoi assi significherebbe vincere troppo facilmente. E che allora si infilasse nel gioco più difficile, dove la sconfitta è certa. Smettiamola. Giochiamo dove possiamo vincere. Abbiamo giovani innovatori bravissimi che stanno sfornando progetti dall’identità profondamente italiana che stanno facendo il giro del mondo. Possiamo farcela unendo i nostri punti di forza tradizionali con l’innovazione. Cosa significa? La dico con un esempio: sappiamo fare la migliore pizza del mondo. Ma a pari bontà della pizza, dobbiamo riconoscere che la gente va in un bel posto, con una bella vista, dove si può prenotare con un’app sia il parcheggio sia il tavolo, leggere le valutazioni online e magari avere uno sconto se con l’app si lascia un commento positivo. E la pizzeria deve saper usare i dati che raccoglie, per offrire un’esperienza ancora migliore, ottimizzare costi, individuare opportunità. La pizza in definitiva deve essere buona, ma la qualità è ormai il punto di partenza, non quello di arrivo della competizione. Questa è la mentalità che ancora manca. Vale per la pizza, ma vale per qualsiasi azienda. Ogni manager oggi dovrebbe tenere a mente questo passaggio dall’economia delle cose a quella dell’esperienza. Oltre l’80% del valore delle 500 maggiori aziende americane è dato da beni immateriali. Il passaggio dalla centralità delle cose a quella dell’esperienza rappresenta una grandissima occasione per il nostro Paese. E il verde del capitalismo ambientalista unito al blu del capitalismo digitale possono diventare due leve potenti per il rilancio della specificità italiana.
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