"Coi miei robot porto il pensiero creativo nelle banche"
di Massimo Cerofolini
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28 Ottobre 2019
Intervista a Valeria Cagnina, 18 anni, da due alla guida di OfPassiOn, la scuola di robotica e coding che organizza incontri per bambini, ragazzi, insegnanti e aziende, anche nel mondo della finanza e del credito: “Il mio obiettivo? Insegnare le basi della tecnologia divertendo e insieme risvegliando le doti della creatività, della logica e della collaborazione”. Valeria sarà ospite giovedì 7 novembre al Salone dei Pagamenti nella sessione “Persone, Macchine, Denaro” ...
Non si chiamano lezioni ma incontri. Non ci sono insegnanti ma mentori. E non esistono studenti ma
dreamers, sognatori. Nulla è impossibile, come recita la prima regola di OfPassiOn, la scuola di robot e coding creata da Valeria Cagnina quando aveva appena 16 anni. Neppure se si passa da una classe per bambini di tre anni nella stessa giornata a una con manager ultrasessantenni. Oggi, scalata da poco la maggiore età, scelta da Forbes tra i 30 giovanissimi che guideranno il futuro e riconosciuta come una delle 50 donne più influenti nell’innovazione italiana, lei ha già le idee chiare su cosa vuole dalla vita: insegnare le basi della tecnologia divertendosi, divertendo e insieme risvegliando le doti della creatività, della logica e della collaborazione. Tra i tanti allievi di ogni generazione e di ogni provenienza, Valeria annovera anche diverse banche italiane. Ed è uno dei motivi per cui è tra i protagonisti del Salone dei Pagamenti il 7 novembre in programma a Milano (
leggi qui).
Valeria, come nasce la tua passione per i robot?
Direi all’età di 11 anni. Andai per caso a seguire un corso del CoderDojo di Milano e rimasi affascinata dall’idea che con una semplice scheda Arduino si potessero connettere le piante a Internet e sviluppare una serie di cose, come annaffiarle o controllarne la salute a distanza. E così è nata la voglia di continuare: mi sono fatta regalare dai miei un kit per costruire un robot e, seguendo i video su YouTube, sono riuscita a farne funzionare uno. Ancora ricordo l’emozione incredibile di quel momento.
Di lì è stato un crescendo. A 14 anni hai parlato a una conferenza TedX, poi davanti ai ricercatori del Cnr di Pisa, addirittura hai tenuto un discorso al Senato della Repubblica sul tema “Il mondo che vorrei”. Probabilmente l’esperienza che ti ha segnato di più è stata passare un’estate al Mit di Boston, la migliore università del mondo, dove il dipartimento di robotica aveva accettato la tua domanda, quando avevi appena 15 anni. Come è andata?
Al Mit dovevo testare il progetto Duckietown, aiutando gli studenti a realizzare un robot capace di muoversi in autonomia in una città immaginaria fatta di papere: doveva fermarsi agli incroci e rispettare quei pennuti abitanti usando solo il sensore di una telecamera. È stata un’esperienza fondamentale, complessa e bellissima, che mi ha insegnato soprattutto che è possibile apprendere senza annoiarsi. Anzi, divertendosi in modo libero e gioioso. Proprio il contrario di quello che facevo nella mia scuola, un istituto tecnico di Alessandria.
È così che hai deciso, di rientro dagli Stati Uniti, di fondare una scuola tutta tua. Ad appena 16 anni.
Sì, ho voluto portare quel metodo qui da noi. E ho cominciato con i bambini più piccoli. Poco alla volta ho allargato le classi ai ragazzi e agli insegnanti. Da subito c’è stata una grande richiesta da parte di scuole sia pubbliche che private. Poi sono arrivati gli inviti da fiere, festival e conferenze da ogni parte di Europa. Fino a che mi hanno contattato diverse aziende per realizzare corsi a beneficio dei loro dipendenti. Sì, perché tramite i robot è possibile fare molto team building.
Subito dopo, cercando collaboratori, ti sei imbattuta in Francesco Baldassarre, un informatico di Alessandria in cerca di stimoli. Vi siete piaciuti e nel giro di quattro mesi è diventato prima il tuo socio e poco dopo il tuo compagno. Cosa insegnate concretamente?
Le materie di base sono ovviamente quelle legate alle tecnologie. Si parte con l’idea di realizzare un robot, ma da lì si aggiungono una lunga serie di competenze. Anzitutto per muovere il robot bisogna apprendere gli elementi del coding, la programmazione informatica. Ed è un grande stimolo per affinare la logica, perché altrimenti il robot non parte o fa cose assurde. Poi ci sono gli elementi di base sull’elettronica. Ma la parte più interessante è quella che viene dopo. Perché nell’esecuzione del progetto tiriamo fuori le competenze che nessuna scuola insegna, ma che sono indispensabili nella società moderna: la capacità di collaborare con gli altri, cosa che la scuola tradizionale di fatto proibisce quando vieta di copiare, ma anche la creatività, visto che ognuno alla fine realizza il suo robot, colorandolo come meglio crede. E poi l’autenticità: nei nostri incontri ci si toglie le scarpe, ci si siede per terra, ci si mette in cerchio, si scambiano le idee e si ride tanto. Ma non finisce qui: facciamo movimento fisico, creiamo coreografie, parliamo quasi solo in inglese. Insomma insegniamo nello stesso tempo un mucchio di cose.
Certo, se è facile immaginare il gradimento di un corso del genere tra i più piccoli e tra i ragazzi, risulta più difficile pensare a un maturo dirigente d’azienda che accetta questo metodo da una diciottenne. Come vi comportate con gli adulti?
Vero, coi grandi è più complicato. Ma solo all’inizio. Sappiamo come farli uscire dal ruolo. E una volta che capiscono il nostro spirito sono i primi a divertirsi. Ognuno riceve un percorso personale, e rispettiamo i diversi tempi di apprendimento. I metodi tradizionali, in pratica, vengono destrutturati. Ripetiamo a tutti la regola: Vietato dire “non ci riesco”. Ma soprattutto, quello che ci procura maggiore soddisfazione è scoprire come dopo i nostri incontri molti manager portino nel posto di lavoro uno stile che favorisce lo scambio di idee innovative e la nascita di prodotti e servizi di grande valore. In parole povere, tornano tutti al lavoro più felici.
Cosa pensi del mondo del lavoro con cui hai a che fare?
Che abbia bisogno di una sveglia. Quando si parla di robot si mette l’accento quasi solo sui pericoli, sui posti di lavoro che le macchine potrebbero rubarci. E invece queste tecnologie ci offrono opportunità straordinarie, ci liberano da tante incombenze alienanti e soprattutto in un Paese con livelli altissimi di disoccupazione sono un campo in cui le aziende non riescono a trovare persone con la necessaria preparazione. Un paradosso di cui non si ha abbastanza consapevolezza. Credo che tutti dovrebbero imparare a programmare un robot così come oggi guidano l’automobile: non c’è bisogno di diventare autisti di professione per prendere la patente, non c’è bisogno di fare gli informatici di professione per muoversi nel linguaggio dei codici.
Oggi la vostra azienda ha decine di collaboratori e lavora molto con le aziende per migliorare l’affiatamento tra colleghi e gruppi di lavoro, il cosiddetto team building. Qual è la vostra esperienza con il mondo delle banche?
Molto buona. Magari ci vuole un po’ di tempo per vincere un atteggiamento all’inizio un po’ formale, ma poi esce fuori un potenziale enorme. Ci piace soprattutto lavorare con gli istituti della provincia italiana, dove c’è molta disponibilità a mettersi in gioco. Sono convinta che i lavoratori delle banche con la loro creatività possano guidare il mondo della finanza nelle sfide che il mercato globale lancia di continuo: soluzioni nuove per snellire la burocrazia, per velocizzare e rendere più amichevole l’esperienza online, per abbassare i costi in linea con quello che chiedono le generazioni più giovani, abituate ai servizi gratuiti, o comunque competitivi, delle grandi aziende del web. E poi per noi le banche possono avere una grande missione nel traghettare il Paese sui campi dell’innovazione: pensate a quanti eventi digitali si possono creare nelle filiali. Noi stessi, in diverse occasioni, li abbiamo fatti con ottimi riscontri.
In conclusione, Valeria, come vedi il tuo futuro, cosa ti aspetti di fare nei prossimi anni?
Ho diversi obiettivi: mi piacerebbe far crescere l’azienda e rafforzarla anche all’estero, anzitutto. E poi vorrei che l’insegnamento che abbiamo messo a punto non fosse soltanto legato ai nostri eventi, ma che diventasse un vero e proprio metodo codificato per le scuole. Infine, visto che mia madre ci tiene tanto, voglio dare gli esami universitari e prendere la laurea in ingegneria.