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27 Dicembre 2024 / 01:38
Chiusi nelle nostre camere

 
Fintech

Chiusi nelle nostre camere

di Ildegarda, Ferraro - 30 Maggio 2017
Dipende da noi. Ci ancoriamo alle nostre opinioni sui social, cercando fatti e amici che corrispondano alle nostre stesse idee, chiusi in camere dell’eco. Ci coinvolge il pregiudizio della conferma, per cui vediamo solo quello che rafforza la posizione, e ci convince la teoria del complotto, secondo cui all’origine c’è una cospirazione. Restiamo quindi indifferenti ai venti di quanto può essere diverso, impoverendoci e non facendoci vedere la realtà. E le repliche o le idee contrarie non hanno effetto o addirittura rafforzano l’opinione. Ma appunto tutto dipende da noi. E esserne coscienti può fare la differenza
Faccio un giro tra i miei amici di Facebook per capire. Per quanto vario possa essere il panorama è abbastanza convenzionale rispetto a me. Non vedo picchi di diversità. Certo ci sono un po’ di adolescenti amici di mia figlia, ma corrispondono abbastanza ad un prototipo. Tra amici degli amici e conoscenti occasionali non trovo niente di proprio fuori linea. Poi la vedo. È una persona del Sud che posta paesaggi e nette posizioni in linea con le idee della Lega nord. Mi è arrivata da un passato lontano. E me la terrò cara, perché rappresenta una finestra aperta per capire chi non sta nella mia stessa camera. Perché se non hai qualche finestra aperta certo non lo capisci il mondo diverso da te.

Non solo bolle dei filtri, ma anche camere dell’eco

La questione è che non solo i grandi player della rete ci costruiscono un vestito su misura con filtri che scremano quanto per noi interessante (ne abbiamo parlato qui - ndr). Noi stessi cerchiamo, vediamo e leggiamo solo quello che ci conferma nelle nostre opinioni, chiudendoci con i nostri amici uguali in ambiti definiti, in echo chamber, camere dell’eco o casse di risonanza che ci danno ragione.
Studi sul tema ed il bel libro Misinformation – Guida alla società dell’informazione e della credulità di Walter Quattrociocchi e Antonella Vicini hanno fatto il punto. Quattrociocchi, che guida il laboratorio di Sociologia Computazionale delle Istituzioni, Mercati e Tecnologie IMT di Lucca, ha al suo attivo analisi corpose su milioni di persone. “Se un’informazione è coerente con quello che mi piace – dice Quattrociocchi – mi affeziono alle fonti che lo confermano, ci rimango dentro e mi circondo di persone che la pensano come me”. Si creano quindi spazi in cui ci confermiamo solo quello che già sappiamo. Argomenti molto gettonati sono inquinamento, alimentazione, salute e geopolitica. Leggiamo sempre le stesse cose e stiamo tra noi (leggi qui).
In questo quadro va alla grande la misinformation, con cui come spiega Quattrociocchi si intendono “tutte quelle argomentazioni o informazioni che non sono verificate, verificabili o addirittura sostanziate. Il fenomeno comporta l’integrazione, nel mondo dell’informazione, di questo tipo di notizie distorte” (leggi qui). Su Youtube sono disponibili ampi stralci di conferenze e analisi di Quattrociocchi proprio sulla misinformation.

Il pregiudizio della conferma e la teoria del complotto

È chiaro che quello che gioca a favore del chiuderci in una nostra tribù è il confirmation bias, il pregiudizio di conferma. Ha il suo peso anche la teoria del complotto, che ci fa pensare che all’origine ci sia una cospirazione che scatena una serie di eventi.

Ribattere ad una tesi paga?

Se stiamo tra noi e cerchiamo solo elementi che confermino le nostre posizioni è chiaro che una replica può non avere effetto, ma anzi consolidarci nelle nostre idee. In questo Quattrociocci è nitido, il problema è la fatica di cambiare idea (guarda qui). E così, visto lo stato delle cose, il Washington Post ha dedicato all’inutilità della replica la rubrica per smentire una notizia falsa spacciata per vera. Caitlin Dewey con la sua rubrica settimanale “What was fake this week” aveva proprio il compito di fare debunking, smontare, smentire e smascherare, ha però deciso di spiegare perché può essere inutile se non controproducente (vedi qui e anche qui).

Cyberflaneur

È chiaro che la conclusione è la scomparsa del Cyberflaneur, il navigatore curioso che va in giro senza troppi limiti sulla rete (leggi qui). Intruppati nei nostri circoli evitiamo di guardare fuori. Certo il cyberflaneur (leggi qui) è ormai un sogno ad occhi aperti.
Aprire la porta o almeno lasciare socchiusa la finestra
A questo punto si pone il problema di che cosa si può fare. Anche perché il dibattito, lo scambio di idee, la possibilità di cambiare le proprie posizioni è parte integrante della democrazia.
Per Luca De Biase, Nova 24 - Il Sole 24 Ore , contro la disinformazione le nuove piattaforme devono possedere sagacia tecnica e saggezza antica
Luce De Biase ricorda che “Le idee in effetti non mancano. Quattrociocchi osserva che la logica della disinformazione nelle echo chamber è molto difficile da contrastare proprio perché le notizie che confermano quello che si sa sono molto ascoltate e quelle che non confermano sono ignorate: 'Una strada per contrastare questa situazione viene dalle soluzioni basate su algoritmi’, come stanno provando a fare Google e Facebook. In modo che peraltro lo stesso Quattrociocchi considera controverso: perché non è detto che gli algoritmi dei giganti citati funzionino e perché nel rischiano di frenare la libertà di espressione”. Sempre secondo De Biase un passo decisivo potrebbe essere passare dal quantitativo al qualitativo: “Una logica di gestione dell’informazione puramente quantitativa finisce in una tautologia, molto probabilmente. Occorre capire come introdurre un pensiero qualitativo nella rete. Perché in fondo qui siamo parlando di qualità dell’informazione. E questa non necessariamente può risultare da un trattamento algoritmico dell’informazione. L’idea dei big data e la data science è un modo positivo per guardare all’information overload e tirarne fuori conoscenza. Ma non può funzionare nella banalità dell’approccio puramente quantitativo”. “Da Harvard – aggiunge De Biase - arriva un suggerimento di Susan Fournier, John Quelch e Bob Rietveld: guardare ai dati non come gestori di informazione, ma come antropologi: non solo per gestirli ma anche per interpretarli”. “Le prossime piattaforme – dice De Biase - dovranno contenere tutta la sagacia tecnica che è emersa sulla rete ma dovranno saper ascoltare la saggezza antica che sapeva discernere ciò che era speciale nel mucchio di ciò che era ordinario, che si prendeva la responsabilità di scegliere ciò che è importante e ciò che non lo è, ciò che è documentato, studiato, dibattuto, sperimentato, deliberato, e ciò che è soltanto immediatamente curioso”. Per De Biase “Forse, non si può eliminare la disinformazione, ma si possono creare luoghi di senso nei quali attrarre i cittadini e sperare che diventino nel complesso più importanti di quelli nei quali ci si perde dietro idee inutili. Non si torna indietro. Ma proprio per andare avanti, la scienza e l’arte, la dimensione umanistica e tecnica, convergono, nella progettazione delle prossime piattaforme. Il management dell’informazione si affianca alla necessità di interpretazione dei dati. La ricerca sull’emergenza dei ‘molti’ si affianca all’ascolto degli ‘speciali’. Il quantitativo si affianca al qualitativo. La classificazione dei fenomeni si affianca al rispetto delle diversità. La pratica di confermare o rigettare le ipotesi si affianca alla semplice sorpresa. La ricerca delle risposte giuste si affianca alla ricerca delle domande giuste”.
Certo il problema se lo pongono tutti. In rete si trovano esperimenti per uscire dalle echo chamber con l’obbiettivo, come dichiarano, “per migliorarsi, migliorare la propria comunità e migliorare il mondo”.
Perché la questione si pone anche da un punto di vista di sfera pubblica, di confronto, senza che le persone si chiudano in circuiti chiusi, ma puntino a dibattere un tema per scegliere al meglio per tutti (leggi qui).

Dalla mia cameretta

In una prospettiva personale continuo a pensare che dipenda da ognuno di noi. E dal contesto ovviamente. Certo anche l’idea che comunque una replica o che ragioni completamente diverse non passino pone il dubbio del perché rispondere. Ma questo non può comunque significare che si stia sempre zitti. Tra lasciar passare tesi improbabili e entrare in una rissa sui social ci sono infinite sfumature. Insomma, lascerei ad una valutazione attenta gli elementi se intervenire o meno. Senza precludersi la possibilità di dire la propria.
Certo resta sempre la possibilità di provare a muoversi su altre camere e in altri contesti. Invece di invischiarsi in un dibattito forse si può anche entrare in una camera meno polarizzata. O in più d’una. Insomma un vecchio trucco. Emerge qualcosa che non va? E invece di replicare direttamente si amplia il discorso facendo emergere altro da altre camere. Invece di rispondere ad una notizia non positiva si riempiono gli spazi con altro. È la vecchia storia che se esce una notizia che vuoi superare riempi la rete di altro. La notizia si degrada e esce dall’orbita dell’attenzione. Certo non è una soluzione generale.
Ovviamente parlo per il singolo. Non per chi si occupa scientificamente del tema, che prova ad immaginare soluzioni di spessore come tavoli permanenti di analisi e dibattito. È la prospettiva di cui parla per esempio Quattrociocchi. E naturalmente la posizione è diversa anche da un punto di vista di attenzione al bene comune, inteso anche come fisiologica costruzione delle opinioni che servono alla democrazia. La questione non può essere vista da un angolo di visuale così semplice.
Resta poi il problema dei bot. Se molte delle notizie sui social fanno capo ad algoritmi camuffati da persone, è più complicato decidere come muoversi. La guerra dei cloni, non è proprio una passeggiata.
Alla fine la palla sta a noi. Tocca giocarla bene.
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