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"Ho inventato il microchip e il touch screen ma non smetto di innovare"

 
Scenari

"Ho inventato il microchip e il touch screen ma non smetto di innovare"

di Massimo Cerofolini - 30 Luglio 2019
Intervista a Federico Faggin, il papà delle tecnologie simbolo della nostra epoca. Vicentino di nascita, californiano d’adozione, fisico e imprenditore, Federico Faggin è uno di quegli italiani che hanno davvero cambiato il mondo con invenzioni straordinarie. E i partecipanti al Salone dei Pagamenti 2019 avranno il piacere di potere ascoltare la sua storia e la sua visione nella sessione d’apertura del 6 novembre. “L’innovazione si basa su un bisogno umano di fare le cose sempre meglio, bisogna partire dalla scontentezza di come funzionano oggi le cose”, spiega Faggin, “Ma non per lagnarsi. Serve uno spirito positivo e ottimista, di chi è convinto di poter fare meglio. Così si gettano i semi dell’innovazione. Abbracciando senza paura le tecnologie informatiche, combinandole con etica, coraggio e saggezza …”
Ha inventato il transistor con la porta di silicio alla base di quasi tutti i circuiti integrati. Ha creato il primo microchip della storia. Poi il primo telefono intelligente capace di utilizzare sia voce che dati. Quindi il primo touch screen, lo schermo sensibile al tocco delle dita, molto prima della Apple. Non pago, ha provato anche a creare il primo computer in grado di imparare da solo e dotato di un minimo di coscienza. Ma quando ha capito che l’impresa era impossibile, ha dedicato tutte le sue energie a indagare sulla risorsa più straordinaria e sottoutilizzata di cui disponiamo, quella che nessuna macchina e nessuna tecnologia potrà mai eguagliare: la nostra coscienza.
Vicentino di nascita, californiano d’adozione, classe 1941, fisico e imprenditore, Federico Faggin è uno di quegli italiani che, malgrado non sia forse conosciuto come merita, hanno davvero cambiato il mondo. Per capirci, è l’unico nostro connazionale presente sul Walk of Fame del Computer History Museum di Mountain view, mentre la Casa Bianca lo ha premiato con la medaglia d’oro per l’innovazione. E di lui Bill Gates, il fondatore di Microsoft, ha detto: “Prima di Faggin la Silicon Valley era semplicemente una valley”. Ecco perché ascoltare oggi la visione di un inventore che sembra raccogliere l’eredità di Leonardo, nel Cinquecentesimo anniversario della morte del genio di Vinci, può essere fonte di ispirazione per tutti. A cominciare dai protagonisti del mondo bancario, alle prese con la rivoluzione digitale che proprio Faggin ha portato nella quotidianità con le sue molteplici trovate. E infatti sarà proprio lui ad aprire il Salone dei Pagamenti, in programma il prossimo 6-7-8 novembre al MiCo di Milano (per partecipare gratuitamente clicca qui). Voce profonda, una forza precisa dentro ogni parola che usa, ecco come si presenta ai lettori di Bancaforte.

Per chi ama la tecnologia lei è una sorta di monumento vivente, colui che ha regalato al mondo quattro tecnologie simbolo della nostra epoca: la tecnologia Mos con la porta di silicio, il microprocessore che fa girare i computer, il telefono capace di trasmettere voce e dati e la “pelle” sensibile sullo schermo dei cellulari che si controlla con i gesti. Come nasce la sua passione per le invenzioni?

Ce l’ho sempre avuta nel sangue. A 11 anni, dopo aver visto un aeromodello volare, ne ho costruito uno a modo mio, partendo da zero. Tutto il mio mondo era dentro quel modellino e lì mi sono innamorato del futuro.

 A 18 anni, dopo il diploma di perito radiotecnico, è assunto all’Olivetti di Borgolombardo, vicino Milano, dove realizza un piccolo calcolatore elettronico sperimentale, quindi in meno di 4 anni si laurea in fisica con 110 e lode, ma la sua sliding door si apre quando la seconda azienda per cui ha lavorato, la SGS Fairchild di Agrate Brianza, organizza uno scambio tra un ingegnere italiano e uno americano con la consociata Fairchild Semiconductor di stanza oltre oceano.

Già, lì cambia tutto. Ho avuto la fortuna di inventare un nuovo processo di fabbricazione per circuiti integrati Mos con porta di silicio, invece che di alluminio. Questa tecnologia ha permesso di fare tutti i pezzi mancanti del computer: il microprocessore, le memorie Ram dinamiche e le memorie non-volatili. Vent’anni dopo quasi tutti i circuiti integrati al mondo usavano questa tecnologia. Dovevo fermarmi sei mesi e non sono più tornato perché fui assunto dall’azienda. Sono poi passato a Intel, dove volevo progettare circuiti complessi.

Ed è proprio a Intel, poco tempo dopo, nel 1971, che inventa il 4004, il primo microprocessore al mondo. In pratica integra in un singolo minuscolo chip più potenza di calcolo di quanta ne avesse all’epoca l’Eniac, il primo calcolatore elettronico che da solo occupava un’enorme stanza. Come è nata questa invenzione?

All’epoca c’era un cliente che voleva realizzare una famiglia di calcolatrici elettroniche con una unità centrale che richiedeva tre chip, perché in questo modo si potevano riutilizzare gli stessi componenti per calcolatici diverse. All’Intel, usando memoria dinamica resa possibile dalla tecnologia con porta di silicio, abbiamo potuto semplificare la proposta del cliente progettando un’unità centrale in un singolo chip, più veloce e molto meno costosa di quella proposta dal cliente. Questo è stato il mio progetto ed è diventato il primo microchip al mondo.

Poi a Intel, sempre nel ruolo di dipendente, sia pure di altissimo rango, ha creato le successive generazioni di microchip, come l’8080 i cui discendenti ancora oggi muovono i computer di mezzo mondo. Come spesso accade alle persone di carattere, però, ha deciso di lasciare l’Intel per innovare più in fretta, rischiando sulla propria pelle. Ha così aperto la sua prima azienda nel 1974: la Zilog che ha introdotto il primo microprocessore a 8 bit di terza generazione, il famoso Z80; poi Cygnet Technologies nel 1982, che ha realizzato il primo telefono intelligente in grado di integrare voce e dati. Ma il suo colpo di genio è stato, nel 1986, Synaptics, che mette in produzione il primo touchpad per i pc portatili e inventa il touch screen, il primo schermo che si comanda con l’uso delle dita. Il gesto iconico della modernità.

L’idea era nata come un prodotto per sostituire quella pallina che esisteva nei pc portatili per muovere il cursore. Non funzionava bene e ho deciso che si poteva fare di meglio. Ho chiamato i miei migliori ragazzi con l’obiettivo di creare insieme una soluzione allo stato solido. Abbiamo così sviluppato i primi touch pad. Più avanti abbiamo perfezionato i touch screen e per cinque anni abbiamo provato a farli adottare dalle industrie che producevano telefonini. Il problema è che nessuno li voleva. Sembra strano oggi, ma preferivano le vecchie scomode tastiere. Fino all’irruzione dell’iPhone, che ha cambiato il modo con cui ci interfacciamo ai cellulari.

Tra l’altro Steve Jobs, il capo di Apple, vi chiese l’esclusiva del touchscreen, ma voi non gliel’avete data.

Proprio così, a Jobs i touchscreen erano piaciuti ma voleva l’esclusiva. A noi però non stava bene. Allora lui se li è fatti da solo alla Apple: una fortuna insperata perché ci ha aperto il mercato ai suoi concorrenti. Così abbiamo avuto uno smercio incredibile di un prodotto che fino a quel momento non riuscivamo a vendere.

Durante i primi anni della Synaptics si cimenta nel progettare un computer cognitivo, cioè un computer che impara da solo usando reti neurali artificiali. Incontra così per la prima volta il problema della coscienza. Più ci pensa e più il problema della coscienza si rivela intrattabile. Decide così di studiare la natura della coscienza per soddisfare la propria curiosità. E da lì parte un nuovo percorso nella sua vita: padre di tanti dispositivi usati oggi in tutto il mondo, crea insieme a sua moglie una fondazione per scoprire la potenza inesplorata della spiritualità umana. Un paradosso, in apparenza…

È un paradosso, dovuto al fatto che c’è una differenza fondamentale tra un organismo vivente e un computer. Una differenza monumentale poco riconosciuta dalla scienza, perché la scienza ha sempre studiato i sistemi viventi come fossero delle macchine classiche. In realtà una cellula è una “macchina” quantistica, di natura molto diversa dai classici computer booleani La consapevolezza non può essere, come sostengono molti scienziati, una proprietà che scaturisce dalla materia, ma è una proprietà irriducibile del cosmo che esiste sin dall’inizio. Proprio per questa ragione noi siamo molto di più delle macchine.

Cosa ha capito della nostra consapevolezza, finora?

Che è la capacità di vivere un’esperienza che integra quattro classi diverse di sensazioni e sentimenti: le sensazioni fisiche, le emozioni, i pensieri e i sentimenti unitivi, ossia spirituali. È questa unione del nostro mondo interiore che ha a che fare con la spiritualità. Noi siamo parte integrante di entità coscienti molto più vaste di quello che pensiamo. Se crediamo di essere macchine, non faremo il minimo sforzo di sviluppare la nostra dimensione spirituale. Ecco quindi che promuovere senza prove l’idea che siamo macchine è un grande disservizio fatto all’umanità.

Tornando al suo interesse per l’innovazione, moneta oggi richiestissima in tutte le aziende del mondo, qual è l’atteggiamento giusto per promuoverla?

L’innovazione si basa su un bisogno umano di fare le cose sempre meglio. Bisogna partire dalla scontentezza di come funzionano oggi le cose. Ma non per lagnarsi. L’innovazione richiede uno spirito positivo e ottimista, di chi è convinto di poter fare meglio. Così si gettano i semi dell’innovazione: uno vede e analizza le inefficienze della situazione attuale, ascolta i bisogni delle persone e prova a inventare soluzioni. L’innovazione è qualcosa di anti-conservativo. A volte le aziende tendono a mantenere e difendere gli equilibri raggiunti, sottovalutando le nuove idee per paura di sbagliare o di perdere terreno. La tecnologia è ciò che ci permette di innovare. La tecnologia nasce sempre per rispondere a un problema specifico, ma quella stessa tecnologia può poi essere applicata orizzontalmente per fornire nuove soluzioni in ambiti diversi. E quindi la forza dell’innovazione, con il giusto approccio, può estendersi in modo esponenziale migliorando la nostra vita.

Un esempio?

Pensiamo a Google, azienda che in fin dei conti ha il suo Dna nel mercato pubblicitario dove ha imparato a usare machine learning e intelligenza artificiale. Ecco, invece di fermarsi lí, è diventata il leader nello sviluppo delle auto a guida autonoma estendendo gli algoritmi e le tecnologie nate per profilare i consumatori a questa applicazione emergente. Una visione coraggiosa e orizzontale che espande le competenze acquisite fuori dal seminato.

Lei vive a Palo Alto, nel cuore della Silicon Valley, da oltre 50 anni. Come mai in quel fazzoletto di terra grande quanto l’Umbria continuano a nascere a getto continuo le innovazioni che invadono il mondo?

Perché qui in Silicon Valley coesistono tutti gli elementi necessari all’innovazione. Prima di tutto tanti soldi da dedicare alla ricerca e a far partire tante aziende di start-up, visto che per innovare bisogna sperimentare, e per sperimentare bisogna accettare molti passi falsi prima di raggiungere risultati accettabili. Poi le competenze: qui si trovano professionalità eccezionali nei campi della gestione aziendale, nel marketing, nella scienza, nelle tecnologie e nei metodi di fabbricazione. Per poter fondare ditte che partono da zero e nel giro di qualche anno conquistano i mercati globali, la valle è diventata una scuola incredibile di imprenditorialità. Terzo aspetto, le infrastrutture: ci sono fabbricati disponibili, ma anche servizi e consulenti specifici pronti ad aiutare chi intende innovare. E infine, ma forse il dato più importante, la mentalità fattiva e ottimista: qui invece di lagnarsi ci si imbocca le maniche e ci si da fare proattivamente abbracciando un’innovazione appassionata. Non a caso la Silicon Valley attira ogni anno circa 70 mila nuovi ingegneri dalle migliori università del mondo.

Che ruolo può giocare l’Italia in questa partita globale in cui, accanto agli Stati Uniti, emergono nuovi protagonisti, a partire dai cinesi?

Noi italiani abbiamo una capacità creativa e una cultura umanistica riconosciute nel mondo. Siamo meno specializzati e spesso usiamo il buonsenso meglio di altri. Sappiamo che la realtà è più complessa di come certe volte gli innovatori la semplificano. E questo è da una parte un bene, perché ci porta a soluzioni più concrete. Dall’altra può diventare un limite, perché spesso l’innovazione non chiede permesso, ma irrompe e sconvolge gli equilibri, preoccupandosi dopo di rimettere a posto le cose. Più in generale, devo dire che c’è carenza gestionale e mancanza di visione innovativa al top per poter portare le idee sul mercato globale.

Che posto dovrebbero occupare le banche in questa grande rivoluzione?

Ora che aziende come Facebook hanno messo un piede nella finanza, lanciando la propria criptovaluta, la risposta delle banche non può che centrarsi e far leva su un fattore chiave: la fiducia. Convincere le persone che secoli di storia alle spalle, malgrado qualche errore, sono una garanzia maggiore rispetto ai nuovi arrivati. La fiducia da sola però non basta: le banche devono trovare il coraggio di innovare. E per innovare bisogna abbracciare senza paura le tecnologie informatiche, combinandole con etica, coraggio e saggezza, alla posizione di mercato che già esiste. In questo modo le banche potranno non solo difendersi dalle incursioni di nuovi partecipanti, ma addirittura eccellere. Però bisogna aprire gli occhi al nuovo mondo e imboccarsi le maniche.

A novembre lei aprirà i lavori del Salone dei pagamenti, in questa edizione legato alle celebrazioni dei 500 anni dalla morte di Leonardo da Vinci. Cosa abbiamo da imparare dal grande genio toscano?

La curiosità e la volontà di capire come funziona il mondo al livello razionale, senza però dimenticare la bellezza e l’armonia che rende la vita più degna e soddisfacente. Da Leonardo possiamo imparare a integrare pensiero, emozioni e coraggio rispondendo a tutti i bisogni umani: non soltanto testa, non soltanto cuore, non soltanto pancia, ma tutte e tre legate insieme in una sintesi profondamente umana.
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