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20 Gennaio 2025 / 22:23
L’inclusione? Chiedersi continuamente che cosa si vuole fare “da grandi”

 
Diversity & Inclusion in Finance

L’inclusione? Chiedersi continuamente che cosa si vuole fare “da grandi”

di Mattia Schieppati - 20 Gennaio 2025
Nella terza giornata dell’Osservatorio D&I, dedicata alla multi-generazionalità in azienda, Giulio Xhaet porta la riflessione sull’importanza di valorizzare il purpose e le passioni delle singole persone per far nascere relazioni forti pur all’interno di sistemi sempre più complessi e fatti di diversità.
Sarà che i bambini di oggi sono molto più avanti dei bambini dell’altro ieri. Sarà che la trasformazione continua e accelerata cui è sottoposto il mondo del lavoro e il continuo innesto di innovazione che lo caratterizza ha stravolto le regole che da sempre guidano i percorsi di carriera e le dinamiche delle strutture aziendali. Che valga una o l’altra causa, una cosa è certa: la domanda “che cosa vuoi fare da grande?”, che un tempo le nonne rivolgevano ai nipotini seienni pronte ad accogliere con entusiasmo le risposte più fantasiose (astronauta, calciatore, ballerina, ecc...) è oggi un interrogativo che campeggia al centro di ogni giornata della maggior parte di noi adulti - o almeno anagraficamente tali.
La trasformazione che i contesti lavorativi e sociali stanno vivendo impongono alle persone di rimettersi costantemente in discussione: non ci sono strade definite, capaci di durare decenni (dall’assunzione alla pensione, in un sereno tran tran fatto di routine), e il capire quotidianamente o quasi che cosa si vuole fare da grandi è una riflessione obbligata sia per mettere davvero a valore le proprie qualità e dare un senso a quel che si sta facendo, sia per dare un contributo positivo all’organizzazione all’interno della quale si opera.
È una sfida bellissima che prende stimolo da un libro (e un podcast) che si intitola “Da grande. Non è mai troppo tardi per capire chi potresti diventare” (Sonzogno), scritto da Giulio Xhaet, Partner e Head of Communication del Newton Group. Ed è una riflessione che Xhaet porterà, il 29 gennaio, all’interno della terza giornata dell’Osservatorio Diversity&Inclusion promosso da ABIServizi (vedi qui), dedicato al tema della multi-generazionalità in azienda, da quella particolare dinamica innescata dalla compresenza sul luogo di lavoro di generazioni diverse, magari anche solo per pochi anni, ma che risultano diversissime per alfabetizzazione tecnologica e capacità di comprendere e reagire all’innovazione.
 
Giulio, partiamo dal tema focus dell’Osservatorio. La coesistenza e l’interazione in azienda di diverse generazioni è una risorsa da mettere a valore, o un “problema” da gestire?
Va fatta una premessa. La multi-generazionalità in azienda c’è sempre stata, non l’abbiamo scoperta ora. La differenza, oggi, è che i salti generazionali non si conteggiano più in termini anagrafici, ma in termini di attitudini, abitudini e comportamenti. Fino agli anni Duemila, il trentenne e il cinquantenne si assomigliavano abbastanza: simili visioni, aspirazioni, modo di concepire vita e percorso professionale. Oggi basta lo scarto anagrafico di 8-10 anni e abbiamo due tipologie di persone completamente diverse. Le generazioni sono “più brevi”, è cresciuto il gap tra una e l’altra, hanno valori, disvalori e visioni sulla vita profondamente diverse. In particolare, in un luogo di lavoro dove questa coesistenza è costante e in qualche modo forzata, far convivere soggetti che hanno un dna culturale così diverso è più una sfida che un’opportunità. Significa dover gestire una maggiore complessità, e più l’impresa è grande, più questa complessità diventa esponenziale. Come punto di partenza, quindi, la diversity - anagrafica e non solo - pone un problema. Come lo si risolve? Bisogna cambiare lo sguardo, e trovare dei punti di contatto intergenerazionali. Questo un punto di contatto consiste in una passione comune, un aspetto spesso “laterale” rispetto al lavoro, ma che consente di mettersi in relazione sulla base di un alfabeto comune: passioni personali che a primo acchito sembrano non centrare nulla con il proprio mestiere, ad es la corsa, musica, cucina... in alcune delle nostre attività di formazione e consulenza alle aziende su questi temi quel che facciamo è stilare un “passion database”, che raccoglie le passioni dei dipendenti, e su quella base cerchiamo incroci e inneschi comuni, portiamo la relazione tra colleghi su un piano diverso. Cambiando la prospettiva capita che un ragazzo di 25 anni e un manager di 55 si trovino a parlare per la prima volta senza quei filtri e della sostanziale indifferenza-diffidenza che c’è quando la relazione è “solo” di tipo lavorativo. Una passione comune stabilisce un rapporto di fiducia, crea curiosità rispetto all’altro.
 
Quanto l’allineamento, la condivisione tra aspirazioni personali e mission aziendale più essere un fattore di inclusione?
Il tema della necessità-utilità di far coincidere il purpose personale con il purpose aziendale è emerso negli ultimi anni, pensando a come le aziende possono essere attrattive rispetto alle nuovissime generazioni, a come portare e tenere in azienda giovani talenti. Ma devo dire che, lavorando con le aziende, si tratta di un tema decisamente intergenerazionale. È una questione che tocca anche i 40-50-60enni, top manager con posizioni elevate e remunerazioni importanti, che però non sin rivelano più fattori così determinanti di soddisfazione. Conta sempre la propria vocazione: la percezione di avere un impatto sugli altri grazie a quel che si sta facendo. Il che non significa solo aiutare chi è in grande difficoltà o salvare i mari dalla plastica (ma se lo state facendo, ben venga!). Anche chi lavora in una istituzione finanziaria o assicurativa può generare un valore umano che lo gratifica, risolvere un problema a un cliente, far crescere un collega più giovane. Sono KPI di nuova generazione, non necessariamente inediti, già esistenti nelle decadi passate, ma che oggi rivestono un ruolo centrale nelle scelte professionali di una persona. Da quanto vedo lavorando con numerose popolazioni corporate vale per tanti individui della generazione Z, millennial, GenX, Boomer. Si rivela trasversale.
 
Mettere le persone nella condizione di pensare ogni giorno a cosa possono fare “da grandi” non mette a rischio gli equilibri aziendali?
Inizialmente sì, capisco che questa idea di esplorare le passioni personali e aprire orizzonti di curiosità possa essere intesa come un pericolo. “Questo ragazzo che è tanto bravo e su cui sto investendo come azienda, ora mi molla e si mette a fare lo chef”. Può accadere? Non così spesso, almeno in Italia, ma sì, può accadere. Però ragioniamo invertendo i fattori: se una persona sta bene in un posto di lavoro, capisce e apprezza il fatto che gli stai offrendo degli strumenti in più per comprendere e valorizzare le sue attitudini, quindi lo avvicini all’azienda, non lo allontani. A quel punto l’azienda può valorizzare per esempio sistemi di job rotation, grazie ai quali far esplorare diversi ambiti all’interno di un’organizzazione. Se invece una persona è profondamente insoddisfatta, può essere lecito che cambi ambiente: sul lungo termine sarà meglio per lei quanto per l’azienda, un win-win doloroso nel breve, necessario nel lungo. Non bisogna avere timore di investire su strategie che accrescono la soddisfazione.
Qual è l’elemento chiave per stare in un’organizzazione con soddisfazione?
Sono diversi. Ma rispondo prendendo i prestito una “trilogia di elementi” che sto studiando proprio in queste settimane, tratta dall’eccellente lavoro di Shigehiro Oishi in Life in Three Dimensions. Secondo Oishi, una vita appagante riesce a ottenere felicità, scopo, e ricchezza psicologica. La felicità è da lui definito come uno stato di benessere emotivo caratterizzato da gioia, comfort e stabilità, ma può anche essere fragile e soggetto a circostanze esterne; cercarla costantemente può portare a un'ossessione che diminuisce il benessere. Poi abbiamo lo scopo (o significato). Chi trova del significato sta perseguendo una vita guidata da un senso di direzione, impegno verso un obiettivo più grande e connessione con qualcosa di rilevante e che vibra in profondità. Ma attenzione: a volte lo scopo può rivelarsi una trappola: se troppo rigido o dogmatico a volte arreca a un senso di fallimento se gli obiettivi non vengono raggiunti. Il terzo elemento è molto intrigante e a mio avviso contemporaneo. Si tratta della ricchezza psicologica. Perseguirla significa cercare una vita ricca di esperienze insolite, complesse e trasformative, che ampliano la prospettiva. Significa lanciarsi in esperienze diversificate e vivere la vita come un viaggio pieno di sorprese. Può comportare instabilità, incertezza e meno comfort rispetto alla felicità o allo scopo, e quindi va dosata con essi. Ovviamente, ognuno di noi può e deve cercare il proprio mix tra felicità, scopo e ricchezza psicologica, in quanto ognuno di noi è diverso.
Quando nel percorso di vita lavorativo si smette di pensare, o è giusto smettere di pensare, a cosa si vuole “fare da grande”?
Non esiste una data di scadenza. O di inizio. Diciamo che è un gioco adatto a bambini da 0 a 100 anni. Se una persona è molto ambiziosa, si realizza in ambito lavorativo e - soprattutto - si diverte in quello che fa, può andare avanti tutta la vita a chiedersi cosa vuol fare da grande, magari anche sperimentando esperienze sempre diverse, perché fa parte del suo dna. C’è chi orienta la propria domanda su ambiti diversi, extra-lavorativi, che vuole magari godersi la famiglia e il percorso dei figli, e allora il suo “da grande” non sarà più legato solo all’ambito professionale. Qualunque sia la strada, l’elemento fondamentale che non deve mai venire meno è quello della curiosità, mantenere un interesse genuino per il mondo e per le altre persone e capire: è la scintilla che ci fa rimanere vivi, e che tra tutte la capacità è appunto quella in grado di alimentare il fuoco della ricchezza psicologica.
 

13-14 marzo: l’edizione 2024 dell’evento D&I in Finance

Si svolgerà il 12 e 13 marzo a Milano, presso l'Auditorium Bezzi Banco BPM, la terza edizione di D&I in Finance è l'appuntamento promosso da ABI e organizzato da ABIEventi nato per consolidare e valorizzare gli interventi svolti dal settore bancario e da altre realtà imprenditoriali a favore delle politiche di Diversità (D) e Inclusione (I) nella finanza.
L'evento, che insieme all’Osservatorio D&I che si svolge nel corso dell’anno si inserisce in un articolato percorso che ABI sta sviluppando sui temi della diversità e dell'inclusione, vuole offrire alle imprese bancarie e non momenti di approfondimento sulla correlazione tra la cultura della diversità e dell’accessibilità e le leve strategiche e di business. Grazie al coinvolgimento di prestigiosi interlocutori, D&I in Finance analizzerà il cambiamento culturale sotteso alle attività di inclusione, equità e valorizzazione delle diversità.
Scopri l'evento e iscriviti qui
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