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10 Ottobre 2024 / 16:15
Il fintech italiano? Ha bisogno di aprirsi al mondo

 
Fintech

Il fintech italiano? Ha bisogno di aprirsi al mondo

di Mattia Schieppati - 9 Ottobre 2024
Tante buone idee di impresa e un mercato domestico che offre buone opportunità, ma ancora alcune fragilità sulla disponibilità di capitali per crescere e sulla capacità di essere attrattivi per investitori stranieri. Con Daniele Zini, autore di “Il fintech in Italia: istruzioni per l’uso”, un’analisi dello scenario dell’innovazione applicata a finanza e pagamenti, per osservare i trend più interessanti che animeranno il Salone dei Pagamenti 2024, al via il 27 novembre.
Lo scorso anno al Salone dei Pagamenti ha esordito l’Agorà del futuro, uno spazio che ha consentito alle startup e a tanti altri soggetti della filiera del fintech di essere parte dell’evento e incontrarsi sviluppando relazioni e connessioni. Un’esperienza di successo, che si ripropone al Salone 2024 (a Milano, dal 27 al 29 novembre, vedi qui) e che consente di rafforzare un percorso di continuità con un settore che rappresenta il più vivace punto di connessione tra innovazione tecnologica e mondo dei pagamenti e dei servizi bancari e finanziari in generale. Un settore in rapida trasformazione, che riesce in brevissimo tempo a esplorare soluzioni che sono davvero capaci di cambiare il mercato. 
Per mettere qualche punto fermo a questo scenario, e provare a individuare i trend più interessanti, Bancaforte ha incontrato Daniele Zini, un’esperienza ventennale nel settore del fintech, senior advisor di ItaliaFintech, e autore del recente “Il fintech in Italia: istruzioni per l’uso”, un libro che costituisce una mappa e una fotografia indispensabile oggi per orientarsi tra le dinamiche e gli impatti della tecnologia nel mondo finanziario e bancario.

Dottor Zini, a poco più di un mese dall’esordio del Salone dei Pagamenti 2024, qual’è lo stato di maturità del fintech italiano?

È sempre difficile delineare uno stato di maturità di un settore. Diciamo che per dare una misurazione, si può guardare a tre aspetti che devono aver raggiunto un certo grado di evoluzione. Il primo è la presenza di un tessuto di operatori con idee di business interessanti, e va detto che l’Italia delle startup e delle pmi innovative ha sviluppato molteplici verticali molto interessanti nel mondo finanziario in generale, in quello fintech e in quello dei pagamenti in particolare. Quindi, il primo elemento possiamo darlo per acquisito. Il secondo è la capacità che queste imprese innovative dimostrano nel trovare un mercato di clienti disposti a pagare per i loro prodotti o servizi, e vediamo che negli ultimi anni è cresciuta moltissimo la percentuali di servizi fintech che trovano un mercato in ambito consumer in quello dei servizi per l’embedded finance, cioé che trovano spazio nell’ambito B2B per migliorare ed efficientare i processi di soggetti terzi. Soggetti terzi che sono per lo più banche e realtà finanziarie, ma non solo. Anche il retail, la ristorazione e la grande distribuzione rappresentano uno sbocco interessante - basti pensare per esempio al successo di Satispay e al cambio culturale che ha portato nei pagamenti. Questo secondo fattore in Italia è senza dubbio molto maturo. Se guardiamo al terzo elemento, però, apriamo la finestra su una fragilità cronica dell’orizzonte italiano: permane una difficoltà nella capacità di attrarre investimenti. Se una startup fintech ha una buona idea, comincia ad avere riscontri positivi dal mercato, ha la necessità di crescere, se vuole sopravvivere. E per crescere servono capitali che è ancora molto difficile trovare.

Quali sono le cause di questa difficoltà?

La prima causa è culturale, ovveri di mancanza di educazione finanziaria. L’italiano non è un investitore, ma un risparmiatore, abbiamo la mentalità da “BOT people”. Ci sentiamo più sicuri nel tener fermo il nostro capitale su un conto, dove viene inevitabilmente eroso dall’ inflazione, e, anziché usarlo per finanziare lo sviluppo del tessuto imprenditoriale fatto anche di nuove imprese innovative. Seconda causa, anche in questo caso storica, è la scarsa attrattività anche nei confronti di capitali stranieri. L’Italia continua a essere percepita come un Paese con politiche industriali troppo frammentate, con una tassazione troppo elevata, dove il limite della lingua limita di fatto molto spesso la scalabilità di una startup al di fuori dei confini... Se ci mettiamo nei panni di un investitore internazionale che decide di allocare dei capitali in un’economia,, che cuba l’1% di quella mondiale, perché dovrebbe trovare interessante l’investimento? Lo sforzo da fare sta proprio qui. Lavorare all’interno, per aggiustare questi fattori respingenti, e lavora sull’esterno, per far conoscere il valore delle nostre giovani imprese e delle nostre idee di business, e attrarre capitali.

Il Salone dei Pagamenti quest’anno sta lavorando molto sul tema dell’internazionalizzazione, del porsi come piattaforma di visibilità all’estero per le nostre fintech. Perché può essere una buona opzione investire sul fintech italiano?

Di queli che sono i limiti, abbiamo parlato. Guardando in positivo, possiamo dire che il mercato italiano, proprio perché è meno sottoposto a penetrazione da parte di aziende straniere, è un mercato meno aggressivo dal punto di vista commerciale, e questo può essere positivo per una startup che all’inizio è fragile, non ha magari la forza e le risorse per competere: se questa startup, in Italia, riesce a garantirsi un pacchetto di clienti adatto alle sue ambizioni, ha più opportunità di sopravvivere e crescere in maniera equilibrata e graduale, perché dovrà affrontare una competizione limitata. L’Italia è insomma una specie di sand-box naturale, insomma, se vogliamo usare un termine di settore. Questa condizione non rappresenta l’optimum per un mercato che voglia dirsi davvero sano, ma può appunto anche aprire delle opportunità alle buone idee che vogliono cominciare a farsi impresa.

Qual è stata e qual è la relazione delle banche italiane rispetto al mondo del fintech? Si usano spesso termini come “cooperazione”, “coo-petizione”...

È una narrazione un po’ letteraria... Le banche italiane, ma direi le aziende bancarie di tutto il mondo, in maniera molto pragmatica hanno risposto al trade-off “make or buy” seguendo la via del “buy”, dell’acquisire e embeddare soluzioni sviluppate da startup nate al di fuori del perimetro bancario. Per qualsiasi industry, non solo finanziaria, costruirsi in-house una soluzione significa farsi carico di costi e di rischi poco sostenibili. Più efficace e pragmatico investire nel capitale di fintech valutate interessanti, oppure scegliere di sostenerle siglando dei contratti che magari possono apparire sovradimensionati rispetto alle esigenze immediate, ma che consentono alla fintech di sopravvivere, crescere, rafforzare la propria proposta, e quindi portare un maggiore valore aggiunto alla banca-cliente. Per poi, magari, arrivare fino all’acquisizione, per portare le soluzioni della fintech all’interno della propria offerta ai clienti. Sono dinamiche ormai all’ordine del giorno. 

Tra queste soluzioni, quelle relative ai pagamenti rappresentano senza dubbio il panorama più frizzante. Quali sono i trend più significativi? Verso dove sta andando il mondo fintech?

Oggi il focus significativo riguarda le soluzioni che, all’interno di un percorso di esperienza del cliente, rendono il pagamento più seamless possibile: il pagamento con un click con il più alto grado di sicurezza possibile. Si tratta di soluzioni che stanno nel processo, non sono glamour, non hanno l’effetto “wow”. Anzi, la loro efficacia sta proprio nel fatto che l’utente non le percepisce, e riesce a effettuare il pagamento senza il minimo intoppo. C’è poi tutto un altro filone, che punta invece all’effetto “wow”, e che propone soluzioni di pagamento che siano anche trendy: penso per esempio allo sviluppo del settore dei wearables, il pagamento con l’anello, con il bracciale... Si tratta di soluzioni che non rappresentano un balzo in avanti dal punto di vista tecnologico, in quanto si tratta di tecnologie non così innovative - siamo ancora più o meno alla tecnologia  che sta nella carta di credito, per capirci - ma contribuiscono a rendere sexy l’atto del pagamento digitale, e questo per un Paese come l’Italia ancora così affezionato ai contanti è un driver di crescita culturale enorme. 

E, se vogliamo dare uno sguardo al futuro, che cosa possiamo intravedere?

Il prossimo passo saranno i sistemi di pagamento biometrici, che potranno essere effettuati l'impronta digitale o con l'iride, esattamente come avviene già oggi per  lo sblocco del nostro cellulare, per esempio. Anche in questo caso, le tecnologie già ci sono, e sono anche abbastanza rodate, ma sono ancora da risolvere numerose questioni legate alla privacy, alla gestione dei dati, e soprattutto in Europa la regolamentazione di questi aspetti è un tema molto sensibile. È un terreno che può offrire straordinarie opportunità alle “cugine” del fintech, ovvero alle startup del regtech...
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