Floridi: “Usare ChatGpt nelle banche? Sì, ma con giudizio”
di Massimo Cerofolini
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23 Ottobre 2023
Il filosofo di Yale, keynote speaker della sessione di apertura del Salone dei Pagamenti 2023: “Oltre a fornire maggiore efficienza, l’intelligenza artificiale generativa potrà essere usata come interfaccia tra noi e competenze che non abbiamo e come stimolo per immaginare nuove offerte agli utenti. Prima di investire risorse ingenti, occorre però prudenza per capire che direzione prenderà questa trasformazione digitale. Creazione di ricchezza, ambiente pulito e benessere sociale, i tre pilastri della banca del futuro”
Non ci voleva molto a capire che le meraviglie uscite dal cilindro di ChatGpt e degli altri algoritmi generativi passassero in meno di un anno dalla fase ludica dello stupore a quella della messa a terra nell’economia reale. Moltissime le imprese, anche nel campo bancario, che cominciano a sperimentare aspetti vari di questa nuova stagione dell’intelligenza artificiale, capace di creare dal nulla testi, immagini, video, audio, software e tabelle, oltre a rispondere su tutto con proprietà di linguaggio e saperi. Il punto è: questi software stanno facendo davvero la differenza? Intendiamoci: le potenzialità sono enormi. Ma l’impressione è che ancora ci si muova un po’ a tentoni. Con il rischio di bruciare miliardi di investimenti per poi ritrovarsi senza nulla in mano, come accaduto col fenomeno esploso e poi sgonfiatosi del metaverso. Almeno, questa è in soldoni l’impressione di
Luciano Floridi, filosofo che da anni riflette sulle ricadute delle tecnologie nelle nostre vite, prima dalla cattedra di Etica dell’informazione all’università di Oxford e da quella con analogo incarico all’ateneo di Bologna, ora come direttore del Centro sull’etica digitale a Yale, negli Stati Uniti. Sarà, il suo, uno degli interventi di apertura della prossima edizione del
Salone dei Pagamenti, in programma all’Allianz MiCo di Milano dal 22 al 24 novembre (
clicca qui per iscriverti gratuitamente). Lo abbiamo intervistato.
Professor Floridi, non passa giorno che i media non raccontino nuovi prodigi di ChatGpt e degli altri algoritmi generativi. È un fenomeno destinato a durare o farà la fine del metaverso, esaltato per un anno e poi dimenticato dai più?
Se guardiamo a ciò che dicono alcune agenzie di consulenza internazionali ci troviamo di fronte a una visione duplice. Da un lato ci assicurano che l’intelligenza artificiale sta arrivando e cambierà tutto, fornendoci cifre da capogiro in termini di incremento dei profitti e dei posti di lavoro. Dall’altro, però, se vai a vedere cosa scrivono su Linkedin, capisci che queste società che raccomandano l’adozione massiccia dei nuovi algoritmi, quando si tratta di fare la loro parte, si tirano indietro. Praticamente non li stanno usando, o comunque sono molto caute, rinviano le scelte magari al prossimo anno, evitando di fare la parte delle cavie. Ecco, da parte mia, consiglierei a tutti quanti di fare come fanno queste agenzie, e non fare come le stesse predicano.
Vuol dire che non crede a un impatto duraturo e dirompente?
Non dico questo. Sicuramente la trasformazione in atto è importantissima, ma è ancora poco chiaro dove la differenza dei nuovi algoritmi sarà sostanziale. Se si tratta soltanto di automatizzare con l’intelligenza artificiale cose che noi già facciamo, come nel caso di un servizio assistenza che genera risposte automatiche se il cliente ha problemi, non ci vuole un genio. Se invece si cerca qualcosa di più significativo sarei cauto nel lanciarmi in grossi investimenti: il rischio è che tutti corrano a cercare l’oro, quando gli unici a guadagnarci sono quelli che vendono picconi e pale.
Però possiamo immaginare in che modo questo universo di nuovi algoritmi potrebbe prendere forma nel mondo finanziario?
Di sicuro ci farà fare le cose che già facciamo in modo più efficiente, con minor tempo, con minori spese e maggiore produttività. Per questo non serve una grande immaginazione: si guarda cosa fa la banca oggi e si vede dove fare un po’ di più con un po’ di meno. Credo però che possiamo guardare le cose in maniera più profonda e osservare due aspetti ancora poco sfruttati. Uno: pensare all’intelligenza artificiale non come un servizio, ma come un’interfaccia, qualcosa che mette insieme altre cose. Faccio l’esempio della programmazione: io non so scrivere un codice informatico, ed ecco che l’intelligenza artificiale genera un software in risposta al mio bisogno concreto, si colloca tra me e la programmazione. Fa in pratica da collante tra me e qualcosa che non è nelle mie capacità. Oppure immaginiamo due unità di una stessa azienda che devono parlarsi e coordinarsi, le quali utilizzano l’intelligenza artificiale per agevolare questa collaborazione.
E il secondo aspetto?
Quello di guardare a ciò che noi non abbiamo mai fatto perché non si poteva fare. Ecco, lì ci vuole immaginazione, ossia la capacità di chiedersi cosa non sto facendo che oggi potrei fare e che non riesco ancora a immaginare perché non l’ho mai fatto. Sembra strano: ma l’intelligenza artificiale può fornire spunti per far avanzare il business in settori che non erano presidiati.
Come in concreto?
Prendiamo il campo assicurativo. I nuovi algoritmi possono aiutare le compagnie a trovare nuove forme di copertura per rischi finora non contemplati. A cominciare magari proprio dall’assicurare l’utilizzo dell’intelligenza artificiale, che può creare problemi e danni alle imprese a causa delle molte criticità presenti negli algoritmi. Ci sono multinazionali come IBM che oggi, oltre a servizi di intelligenza artificiale, forniscono anche contratti per assicurare chi utilizza i suoi software affinché siano minimizzati i rischi. Ecco, questo è uno sviluppo del tutto nuovo.
A proposito di rischi, quali sono quelli più preoccupanti per un istituto finanziario che dovesse avvicinarsi a questi nuovi codici?
Partirei dai soliti sospetti, i problemi ormai piuttosto conosciuti anche dal grande pubblico: gli attacchi informatici ai siti sempre più sofisticati, i furti di identità dei clienti, le manipolazioni dei conti o dei contratti, il riciclaggio del denaro sporco e via dicendo. Insomma, tutto quello che le banche avevano sofferto in passato, moltiplicato dagli algoritmi. Ma tutto questo gli istituti finanziari lo sanno benissimo e sono attrezzati per affrontare le varie situazioni. Metterei invece l’accento su un paio di problemi ancora poco percepiti. Il primo è l’eccesso di affidamento nei confronti di questi strumenti: ChatGpt ci scrive una poesia come se fosse Leopardi, quindi assumo che sappia interpretare i trend del costo del petrolio come un navigato analista. Attenzione, però: l’affidabilità è dei punti più deboli degli algoritmi generativi. Guai a pensare che, siccome sono strumenti statistici potenti, possano azzerare un lavoro certosino di verifica da parte di persone in carne e ossa. Il secondo aspetto che mi preme sottolineare è che gli algoritmi generativi sono dei cavalli di Troia. Dobbiamo sempre ricordarcelo: utilizzarli vuol dire cedere a una rete esterna informazioni che possono essere del tutto private, riservate, confidenziali. C’è stato il caso di un dipendente di una grande compagnia che ha usato uno di questi algoritmi per preparare un documento, senza rendersi conto che stava rivelando alla macchina segreti industriali che dovevano rimanere protetti. Pensiamo ai danni di un impiegato che, per esempio, traduca o riassuma con un’intelligenza generativa il contratto riservatissimo con un’altra banca. Che fine fanno quelle informazioni che mette in rete? Quindi, in definitiva: eccesso di affidamento da una parte e cavallo di Troia dall’altra. Anche insieme: in fondo chi si è fidato del cavallo di Troia non ha fatto una bella fine.
Anche per gestire queste incognite si apre la necessità per le banche di dotarsi di figure professionali nuove, con competenze difficilmente reperibili oggi sul mercato. Quali lavori immagina emergeranno nel settore finanziario alla luce di questa rivoluzione digitale?
In passato si scherzava dicendo che non esistevano più i netturbini ma solo gli operatori ecologici o che l’idraulico era diventato l’ingegnere delle acque. Non vorrei entrare ora in una fase in cui tutto diventi solo una questione di nuovi vocaboli per definire cose vecchie. Detto questo, a me sembra che tutti i lavori, dal piccolo al grande, da quello con poche responsabilità a quello con tante responsabilità, da quello pagato poco a quello strapagato, tutti i lavori vadano nella direzione del management, cioè della gestione. Questo non vuol dire lasciare semplicemente le cose come stanno, vuol dire anche pianificare, decidere la direzione di ogni cosa, pure del servizio occasionale o della piccola operazione che si fa con un cliente in una cittadina di provincia. È management anche quello. E allora – dopo i coletti bianchi, marroni e blu – vorrei proporre un nuovo colore per i lavori del futuro: i colletti verdi. Ossia quelli che non fanno semplicemente produzione di contenuto, ma hanno una responsabilità in più: si prendono cura.
Ad esempio?
Ne dico due. Il primo: tornando a ChatGpt, la questione non è che belle risposte che ci dia l’algoritmo, ma chi decide quali domande porre. Il secondo: non che risposte ci dà, ma cosa ci faccio con quelle risposte. Quindi il nuovo lavoro sta prima e dopo l’azione dell’intelligenza artificiale. Ma non nella funzione e nel contenuto, che oggi te lo produce ChatGpt, come ieri Wikipedia e l’altro ieri l’unità di ricerca che veniva ingaggiata per offrire un risultato. Il punto centrale è capire se quelli forniti dall’intelligenza artificiale sono davvero i dati che mi servono, le informazioni di cui ho bisogno oggi, ma soprattutto cosa me ne faccio. Tradotto: una volta che ho saputo la tendenza del costo del petrolio o che una certa provincia ha bisogno di una nuova filiale, chi prende la decisione su che fare? Oggi questo non è più solo al livello del grande manager o dell’amministratore delegato. Oggi è in carico a qualsiasi figura coinvolta nell’azienda. È gestione, gestione lungimirante.
Quanto sarà sostenibile tutto questo dal punto di vista ambientale?
Da un lato tantissimo, dall’altra pochissimo. Oggi il sistema è del tutto insostenibile, perché stiamo usando enormi quantità di energia, di risorse e di denaro per creare strumenti che ancora non fanno una gran differenza. È un po’ come se girassimo con un’auto elettrica che poi carichiamo a casa con un generatore a petrolio. Il danno è enorme. È inutile pensare che l’ultimo passaggio della catena faccia la differenza se stiamo solo spostando i problemi alla fonte. Diciamolo chiaramente: oggi il digitale sta facendo male all’ambiente e lo stiamo utilizzando in maniera povera e mal diretta. Può fare benissimo? Sicuro. Ma occorre orientarlo. In questo caso il digitale può fare davvero la differenza.
Cosa potrebbe fare una banca in questo senso?
Prendiamo il caso della gestione dei rifiuti, dell’elettricità, del riciclo e della temperatura. Se si decide in tutte le filiali di abbassare del 20 per cento i consumi elettrici o di riscaldamento vuol dire non solo fare del bene al business, in termini di risparmi, ma fare benissimo all’ambiente. Lo stiamo facendo? Questa è la mia raccomandazione: è una situazione win-win.
Al di là dell’ambiente, qual è oggi il ruolo sociale della banca?
La banca nasce con un preciso ruolo sociale, siamo stati noi italiani ad avere creato i primi modelli al mondo proprio con questo obiettivo. Nasce per migliorare la società in cui emerge e, oltre al business, oltre all’ambiente, fa bene anche alle persone che condividono un territorio. Ecco allora i tre fini da inseguire: creazione di ricchezza, aumento del benessere ambientale, evoluzione della società. Questo farà una banca con la b maiuscola, una banca che può essere fiera del suo futuro.