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21 Dicembre 2024 / 17:00
Ambiente, mamme e generazione X, così la nuova identità dei brand

 
Scenari

Ambiente, mamme e generazione X, così la nuova identità dei brand

di Massimo Cerofolini - 29 Giugno 2020
Puntare sul prodotto non basta, per dialogare con il mercato occorre mettere in evidenza i valori in cui le persone si riconoscono: le strategie per comunicare in modo naturale, intimo e coinvolgente e il ruolo centrale della giovani. I racconti e le analisi dell’ultima sessione, tutta online causa Covid, dell’Osservatorio ABI su Digital Marketing e Comunicazione Integrata 
Dal cuore sfuggente dei giovanissimi ai loro temi più cari come l’ambiente. Dalla battaglia contro le discriminazioni alla difesa delle mamme e delle nuove famiglie. Sono solo alcune delle coordinate su cui la comunicazione aziendale sta riposizionando meridiani e paralleli. “Puntare soltanto sul proprio prodotto – spiega Daniela Vitolo dell’Ufficio Studi ABI e coordinatrice scientifica dell’Osservatorio ABI Digital Marketing e Comunicazione Integrata – è ormai del tutto insufficiente. Oggi le grandi imprese dialogano con il mercato evidenziando i propri valori, in modo da incontrare le persone nelle forme più naturali, più intime e più coinvolgenti”.
Fondare la personalità di un brand su principi riconoscibili, che siano però netti, coraggiosi e coerenti, non è una cosa che si improvvisa. Dopo aver esplorato le chiavi della mente (con gli strumenti del marketing forniti dall’intelligenza artificiale e dai chatbot, vedi qui) e quelle del cuore (con le tecniche e le idee per muoversi con empatia sui social network – vedi qui), la terza sessione dell’Osservatorio ABI ha puntato la rotta, stavolta soltanto online causa Covid-19, proprio sulla ricerca dell’identità. Cosa significa oggi, mentre ci stiamo ancora rialzando dalla sberla del Covid, valorizzare la visione del mondo e gli ideali che incoronano un brand?

Ordine e sobrietà per il dopo Covid

 Per rispondere a questa domanda bisogna fare un passo indietro. E sfogliare le pagine dell’ultimo rapporto di Tea Trends Explorers, il laboratorio di ricerche predittive sulle tendenze del mercato e di consulenza per lo sviluppo di nuovi prodotti. Architetto e futurologo, il fondatore del centro studi Domenico Fucigna mostra come già da diversi mesi molti artisti avevano captato con le loro antenne ciò che sarebbe successo: ecco allora le foto di musei che espongono opere con alberi che si riappropriano della natura o con le maschere antigas a fare da protagoniste. “La possibilità di un’epidemia – ricorda con un certo orgoglio Fucigna – era una delle congetture che avevamo avanzato lo scorso anno. E le conseguenze le vediamo già in atto adesso. Ecco perché, nella loro comunicazione, le aziende non possono non tener conto di alcune tendenze, come la necessità di un distanziamento tra le persone o un certo anelito di ritorno all’ordine, in reazione all’instabilità del momento. Ancora più marcata, poi, è una  propensione alla sobrietà, che grandi nomi del lusso stanno già adottando: se guardiamo ai loro loghi, da originali e fantasiosi che erano fino a poco fa, sono diventati tutti molto lineari e puliti, simili gli uni agli altri, come nel design espresso dai creativi della Bauhaus negli anni Venti”.

L’uragano Z, la generazione attenta del bene comune

Ma la cosa più interessante del rapporto Tea sono le pagine dedicate alla Generazione Z, i nati tra la seconda metà degli anni '90 e la fine degli anni 2000. In pratica la prossima infornata di consumatori. “I brand devono guardare a questi giovani con grande attenzione – sottolinea Fucigna – perché saranno loro a rivoluzionare i mercati, a differenza delle due generazioni precedenti, la X e i Millennial, molto più deboli in termini di consapevolezza e identità. Gli under 25 hanno infatti una solida visione sociale, aspirano al bene comune e vivono nella totale liquidità, nel senso che non si riconoscono in una definizione unica e circoscritta. Anche rispetto alle preferenze sessuali”.
Come rivolgersi a questo esercito emergente? A dare voce al mondo Z, altrimenti detto degli zoomer, l’Osservatorio ha chiamato uno di loro, Davide Dal Maso, 24 anni, social media coach, fondatore di Social Warning - Movimento Etico Digitale, inserito da Forbes tra i 30 under 30 più promettenti d’Italia. “La mia – spiega – è una generazione che ha una gran voglia di comunicare e di cambiare le cose, ma siamo totalmente trascurati da chi ha in mano le chiavi della politica e dell’economia. A differenza di ciò che accade all’estero, è molto difficile trovare nei ruoli di comando persone in questa fascia di età. Eppure abbiamo due grandi punti di forza che ci consentono di interpretare meglio di chiunque altro il mondo del futuro: siamo la prima generazione che esprime in modo potente e immediato l’assenza di scissione tra vita reale e vita online, quello stato che il filosofo Floridi ha definito onlife; e abbiamo una spiccata preferenza per tutto ciò che esprime valori etici, sia nei rapporti personali che verso l’ambiente in cui respiriamo”.
Generazione strategica, eppure, poco compresa dai guru della comunicazione. “Quando vogliono parlare di noi e con noi – sorride Dal Maso – o lo fanno sui canali estranei alla nostra generazione, come Facebook e le e-mail, oppure scimmiottano un linguaggio che pensano ci appartenga ma che in realtà non usiamo: tipo i tanti punti esclamativi in fondo a una frase o la k al posto di chi”. Nella sua esperienza di consulente per realtà del calibro di Italo, Dal Maso ha visto schizzare il coinvolgimento delle campagne che adottano forme comunicative riconoscibili dai giovani: “Con la generazione Z funzionano per esempio Whatsapp business, TikTok, Instagram, HouseParty, FaceTime, specie chiamando le persone a candidarsi, a mettersi in gioco e sfidarsi su determinate attività, magari con qualche premio in palio. Ma soprattutto quello che ricompensa è l’umanità del brand, il sentirlo vicino alle proprie emozioni, al proprio modo di divertirsi, ai propri valori di riferimento”.

Cinque sfumature di green

E il valore numero 1 dei nuovi consumatori è sicuramente quello che vedono minacciato negli anni a venire: l’ambiente. Papa Francesco, da una parte, e Greta Thunberg, dall’altra, sono stati i portabandiera di battaglie sulla riduzione della plastica o contro l’eccesso di combustibili fossili che hanno trovato nei giovanissimi il seguito più robusto. Mettere a fuoco una strategia di comunicazione sui temi del green non è però affatto semplice. “Tutto cambia in modo quasi isterico – dice un altro ospite dell’Osservatorio, Carlo Alberto Pratesi, docente di Marketing, Innovazione e Sostenibilità all’Università di Roma Tre – e ciò che ieri infiammava le coscienze, come l’olio di palma, oggi sembra un lontano ricordo”.
E allora, vista la lunghezza dei processi decisionali e l’emersione improvvisa di fiammate come quella del Covid, qual è il modo giusto di affrontare la materia? “Può essere d’aiuto – elenca Pratesi – comprendere le diverse prospettive valoriali e calibrarle secondo la storia e l’obiettivo della società. Noi ne abbiamo identificate cinque: il tema della biodiversità, ossia la scomparsa di specie viventi; la circolarità, cioè l’uso corretto delle risorse e la riduzione degli sprechi e della Co2; la decrescita nostalgica, vale a dire il ritorno a una semplicità tipica del passato; l’autarchia, in pratica il chilometro zero e un senso di chiusura autosufficiente; l’umanità aumentata, ovvero il mondo delle tecnologie e dell’innovazione, come la carne senza carne. Ecco, non c’è una scelta migliore di altre, l’importante è trovare la dose corretta tra questi valori e mantenersi coerenti”.

La diversità che fa rima con autenticità

L’altra grande galassia su cui puntare i cannocchiali è quella della diversità. Nelle sue infinite varianti: quella di genere, la disabilità, le etnie, l’età, il credo, le condizioni socio-economiche e via dicendo. Categorie finora tenute prudentemente ai margini di qualsiasi messaggio pubblicitario che ora si scoprono portatrici di quell’autenticità dentro cui in molti si possono rispecchiare. Dice Francesca Vecchioni, fondatrice e presidente dell’associazione Diversity, impegnata a promuovere le differenze e la molteplicità come un patrimonio prezioso per tutti: “Tolti i maschi bianchi, ricchi ed eterosessuali che vivono in famiglie a loro immagine, quasi tutti hanno a che fare con qualche forma di diversità. Direttamente o indirettamente. Portare allora queste figure al cuore dell’identità di un brand ha come conseguenza ricadute positive sotto ogni profilo”. Qualche dato dalle ricerche condotte da Vecchioni: tre persone su quattro sono sensibili a messaggi sulla diversità; le aziende che comunicano e investono su questi argomenti realizzano in media il 20% di profitti in più rispetto a quelle che non lo fanno; i temi dell’inclusione aumentano dell’85 % il passaparola positivo tra i consumatori, mentre se una società compie un atto di discriminazione l’apprezzamento del brand cala dell’81%.
Come si agisce su queste sfere? “La prima cosa – risponde Vecchioni – è la coerenza, una strategia che coinvolga ogni aspetto della società, dall’amministratore delegato all’usciere. Non basta una campagna sulla parità di genere se poi nel board della società ci sono 15 uomini e una donna. La seconda è che non bisogna più pensare a queste iniziative come a dei costi per onorare la responsabilità sociale, ma a investimenti cruciali per la crescita dei bilanci. Poi serve coraggio, senza paura di prendere posizioni scomode: dopo l’appoggio al Gay Pride, Diesel ha perso 14mila follower, indignati dalla scelta. Anziché nascondere la notizia, l’azienda ha festeggiato su Instagram la perdita di questo consenso. Risultato: in poco tempo ha guadagnato 60 mila nuovi fan”.

Brandizzare una denuncia contro l’odio online

Al confine con il mondo della diversità si collocano le battaglie contro l’odio online. Anche queste, con i dovuti accorgimenti, possono diventare oggetto di comunicazioni identitarie per i brand. Ne è convinto Francesco Inguscio, ingegnere finanziario, imprenditore digitale, fondatore seriale di start-up, una lunga militanza in Silicon Valley e ora al timone di Chi odia paga, la piattaforma che tutela le vittime di attacchi sul web garantendo una serie di iniziative giudiziarie: dalla consulenza legale automatizzata con i chatbot (capace di fornire pareri in un secondo) alle azioni per rimuovere i post scorretti, fino alle diffide legali e alle denunce contro gli hater: “Abbiamo creato – afferma nel suo intervento all’Osservatorio - una cintura di protezione di facile uso, specializzata ed economica, a difesa di minoranze omosessuali, donne, disabili, migranti, ebrei, in pratica le stesse figure promosse da Diversity. Ogni giorno sul web si registrano circa 7 mila casi di incitamento all’odio e l’indifferenza finisce per diventare complicità. Ecco perché un’azienda, come una banca che voglia rafforzare la sua identità, ha tutto l’interesse a schierarsi dalla parte dei più deboli”.
Tante le opzioni possibili: finanziare una campagna di crowdfunding, fornire forme di volontariato con i propri dipendenti, coprire le spese giudiziarie per le persone in difficoltà. “Pensate l’impatto – ipotizza Inguscio – di brandizzare una denuncia, difendendo i singoli individui umiliati su Internet. Del resto sono già molte le grandi aziende che si stanno mobilitando in questa direzione: penso alla candid camera contro il bullismo realizzata da Burger King o alla polizza di Zurich contro l’odio online”.

Che potenza la chat delle mamme su Whatsapp

Un valore a cui le imprese guardano con sempre più interesse è quello delle madri. Osserva Fabrizio Fornezza, presidente di Eumetra Mr, istituto di ricerca sui temi del mutamento sociale e dell’innovazione, fresco proprio di uno studio sulle nuove famiglie: “C’è un fenomeno che le aziende devono tenere assolutamente d’occhio nella loro comunicazione. È l’arrivo delle prime mamme della generazione Z, donne spesso colte, lavoratrici, conviventi senza matrimonio. Tra cinque anni rappresenteranno il 30% sul totale delle mamme e quasi la metà delle primipare. Con loro cambia tutto: se prima erano le madri a insegnare alle figlie come crescere i bambini, adesso le nuove mamme attingono le informazioni soprattutto dalle loro coetanee attraverso Whatsapp, blog e social network. E questo passaggio comporta un nuovo tipo di linguaggio: stop alla retorica del genitore sognante, sì a messaggi informativi, istruttivi e legati al risparmio dei costi, specie in questa fase post covid”.
Errori da evitare? Mai ghettizzare la donna nel solo ruolo di mamma (come l’immagine presente nell’app Immuni, poi ritirata dopo le proteste), ma ricordare sempre che è anche altro, una lavoratrice per esempio. Fattori vincenti? Puntare sulle soluzioni pratiche ai problemi più ricorrenti. Che cambiano mese dopo mese. Con un’avvertenza: la finestra a disposizione delle aziende per conquistare il favore delle mamme dura le poche settimane della gravidanza. E chi si muove prima vince. Come? “Funzionano molto le macro-comunità, tipo Fattore mamma o i siti femminili”, suggerisce Fornezza. 

Dal brand ambassador al co-marketing

Fin qui i temi. Ma quali sono le nuove strategie per mostrare la propria identità al cuore dei consumatori? L’Osservatorio ABI si è concentrato su due proposte. La prima è quella dei brand ambassador, il ricorso ai dipendenti aziendali come ambasciatori della marca. “La reputazione di un’impresa – dice Francesca Lanzara, portavoce di Linkedin – è fortemente connessa con il senso di umanità che riesce a trasmettere. E cosa c’è di più autentico di un messaggio da parte di chi l’azienda la conosce da vicino perché ci lavora? Marchi come Lidl, Prada, Eni o Barilla hanno trasformato i loro lavoratori nei protagonisti o negli autori di video capaci di generare un numero altissimo di contatti. Anche durante questa emergenza Coronavirus. E il motivo è molto semplice: comunicano una fiducia diretta e genuina”.
L’altro sistema a cui guardare è quello del co-marketing, l’unione di due marchi diversi nella stessa campagna promozionale. Michele Picci, direttore creativo di Publicis Italia, ha chiuso l’Osservatorio mostrando una serie di coppie celebri, da Sandra e Raimondo a Stanlio e Olio: “Ogni azienda – sostiene – può trovare il giusto partner per dire qualcosa di più a qualcuno in più”. Anche qui qualche accortezza: non funzionano le nozze d’interesse, dove l’accostamento dei brand finisce per fagocitare il più debole dei due, come successo in un celebre spot con Versace e H&M. Più riuscite le campagne in cui i ruoli rimangono separati, ma i valori in ballo sono comuni. Uber e Spotify, ad esempio, hanno realizzato un video in cui le due offerte erano ben integrate con un reciproco rafforzamento del messaggio identitario: il divertimento che non finisce mai. Sia in casa che durante un tragitto in auto. Altri casi: Louis Vuitton e Bmw hanno comunicato insieme il valore dell’eleganza, Diesel e Coca Cola quello dell’ecosostenibilità. I vantaggi di questa pratica? “Si tagliano i costi – dice Picci – mentre si raddoppia l’esposizione, scambiandosi le reciproche clientele. E soprattutto si ottiene un effetto sorpresa, lo stupore che tutti cercano quando navigano online”.
 
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