Luciano Floridi: «I pagamenti daranno all’Italia un digital shock»
di Mattia, Schieppati
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19 Luglio 2018
Il filosofo italiano, docente dell’Oxford Internet Institute e direttore del Digital Ethics Lab, il 7 novembre sarà tra i protagonisti della sessione plenaria del Salone dei Pagamenti 2018. «Un’occasione per chiamare istituzioni e imprese a comprendere il bisogno di innovazione che viene dal basso». Perché le tecnologie digitali sono oggi un elemento chiave dell’evoluzione dell’uomo
Ma serve davvero un filosofo per parlare con competenza di innovazione e sistemi di pagamento? Sorride e non si scompone Luciano Floridi, docente di filosofia ed etica dell'informazione all'Università di Oxford, tra le voci più autorevoli al mondo all’interno del dibattito, ormai quotidiano, sui mutamenti sociali, umani, antropologici che l’Intelligenza Artificiale sta introducendo a un ritmo sempre più sostenuto. «Serve», ribatte, «dal momento che da sempre, nei momenti di crisi, quando si è sulla soglia di un cambio epocale, è alla filosofia che ci si rivolge per provare ad affrontare e dare risposta a problemi aperti. I matematici, le scienze empiriche in generale, scendono in campo per “chiudere” i problemi, dirci quanto fa 2+2. Ma oggi la società è di fronte a temi aperti, perché l’innovazione tecnologica ha aperto scenari, prospettive, orizzonti. Pone questioni decisionali rispetto alle quali mancano ancora un pensiero, una semantica adeguata. Lo sviluppo tecnologico ha aperto un mare di possibilità davanti a noi, non si tratta più di andare avanti o indietro, bensì di capire dove andare. Quindi, è più tempo da filosofi, questo, che da ingegneri. Quando “chiuderemo” i problemi, allora bene, la filosofia potrà ritornare nel suo cantuccio a discutere di cose che al mondo poco interessano, come sempre avviene da millenni».
La diffusione di sistemi di intelligenza artificiale e, in generale, la digitalizzazione progressiva della realtà, pagamenti compresi, rappresenta davvero una soglia epocale?
Le tecnologie digitali sono ormai a un livello tale di penetrazione nel «reale» che sta davvero modificando molte delle nostre categorie mentali. Prendiamo come esempio proprio i pagamenti: un tema perfetto, perché riguarda gesti che ciascuno di noi compie ogni giorno, da chi insegna a Oxford alla massaia che va a fare la spesa in macelleria. Il digitale ha abbassato in maniera straordinaria quei “costi di frizione” che gravavano sul denaro, diciamo così, analogico. Abbassando i costi di frizione, posso permettermi di abbassare la soglia, di gestire in maniera continuativa anche pagamenti irrisori, di pochi centesimi, farlo 24 ore su 24, 7 giorni la settimana. Il che fino a ieri impossibile.
Che cosa significa, a livello di pensiero, di cambiamento, questo?
Significa che le tecnologie di pagamento digitali ci abituano a quantificare anche cifre non rilevanti, che prima non arrivavano alla soglia di attenzione del «vale la pena», rispetto alla quale il nostro cervello era abituato a ragionare. Oggi no, i 3 centesimi si possono calcolare e accumulare. Valgono. La app economy ci ha insegnato che posso vivere bene anche se un milione di persone mi dà 10 centesimi, non solo se trovo un lavoro da 100 mila euro. Altro tema: il digitale ha desincronizzato i pagamenti. La mia generazione, e così tante generazioni prima di noi, ha vissuto nella logica dello «stipendio a fine mese», e rispetto a quella scadenza ha preso forma la «vita economica» di milioni di individui e di famiglie. All’arrivo dello stipendio si facevano i grandi acquisti, si pagavano le rate … Oggi, semplicemente, questo non è più necessario e via via sparirà. Lo stipendio, grazie a strumenti digitali, potrebbe essere pagato letteralmente “a minutaggio”. Percezione della soglia di valore, delocalizzazione, desincronizzazione, sono categorie filosofiche, di pensiero. Che servono, oggi, per leggere le nuove istanze che emergono, per esempio, nel campo dei pagamenti.
L’Italia non dovrebbe cavalcare questo driver per diffondere innovazione?
È fondamentale. Il nostro Paese ha bisogno di un elettroshock, chiamiamolo digital shock. Ancora oggi i pagamenti digitali vengono visti come un qualcosa che, obtorto collo, «bisogna fare». Ma dovremmo invece esserne entusiasti! Cavalcare e pretendere la leadership di queste innovazioni. Dal tassista alla macelleria di quartiere, se ci convincessimo dell’importanza di introdurre pagamenti evolute a tutti i livelli, saremmo a una svolta. Pensiamo a i vantaggi che si potrebbero avere anche a livello quotidiano, di maggiore velocità ed efficienza del servizio. Avete mai pagato un taxi con carta di credito a Londra, rispetto ai minuti che perdete a Roma a frugarvi nelle tasche per trovare quell’euro che non si trova mai? Faccio esempi “piccoli” forse poco filosofici, ma proprio per far capire che il tema dei pagamenti può essere rivoluzionario se lo contestualizzassimo nelle nostre azioni quotidiane. Poi, se allarghiamo il campo, allora il discorso sale di livello: pensiamo all’impatto della digitalizzazione sulla tracciabilità totale dei pagamenti, in un Paese come il nostro dove evasione e sommerso sono un problema secolare… Entreremmo in un altro mondo. Tocca alla politica in primis comprenderlo e agire.
Visto da Londra, quanto è ampio il gap digitale che il nostro Paese sta accumulando?
Il gap c’è, ma io voglio essere positivo. Dare stimoli positivi. Però dobbiamo guardare la realtà. Pensiamo all’e-commerce, alla situazione attuale della presenza online delle nostre imprese. La Francia ha il doppio dei negozi online rispetta all’Italia e non parliamo di un Paese lontano da noi per cultura e formazione. Com’è possibile che un Paese come l’Italia, che vive di export e di qualità dei prodotti, non sia costantemente online con le sue eccellenze di cui il mondo ha una fame estrema? Il digitale deve essere una materia centrale, primaria dell’azione di ogni governo, perché è il futuro. Mi auguro che anche il Salone dei Pagamenti possa essere un’occasione forte per porre questi temi al centro del dibattito e all'attenzione delle istituzioni e del sistema delle imprese.
Allarghiamo il campo, dal futuro dell’economia italiana al futuro dell’umanità. L’economia accelerata dall’intelligenza artificiale si basa su enormi quantità di dati e su straordinarie velocità di elaborazione. Il nostro cervello, per quanto si sforzi, non è formato per inseguire le macchine su questa strada. Che spazio resta all’umano?
È come dire: per tremila anni abbiamo raccolto patate; ora che le patate vengono raccolte con le ruspe, ecco che è finito il nostro lavoro. Ma chi l’ha detto che la prospettiva dell’uomo è raccogliere patate? Oggi l’economia, il lavoro, si muovono operando su quantità vastissime di dati – le patate – a una velocità enorme. Però abbiamo gli strumenti giusti per gestirli – la tecnologia è la nuova ruspa – e questo vuol dire che noi potremo fare altro, potremo fare delle cose più intelligenti, cose che hanno davvero bisogno di quel “tocco unico” che sa dare l’individuo. Quando Alan Turing, negli anni Quaranta del Novecento, usa la parola “computer”, sta parlando di persone, intende quel che noi chiamiamo il “ragioniere”. Resto nell’ambito agricolo: il fatto che io non debba più tagliare l’erba in giardino, mi dà la possibilità di curare le rose. Il che è più bello, dà più soddisfazione, è più adatto al nostro essere umani.
Portiamo questo discorso in banca. Nelle banche, ci sarà bisogno di giardinieri, ora che i chatbot “raccolgono le patate”?
Esatto. La prospettiva su cui le banche dovrebbero investire quella della “tailorizzazione”, la sartorializzazione dei servizi e dei prodotti. Portare anche ai piccoli correntisti quella personalizzazione e cura estrema che fino a oggi le banche potevano permettersi di dare solo ai loro grandi clienti. La banca non ha più bisogno di persone che stanno allo sportello a incassare assegni, perché l’assegno oggi lo si può versare scattando una foto attraverso un’apposita app. Quella persona, però, mi è utilissima – proprio perché persona, al di là degli skill che possiede – per lavorare sulla customizzazione dei prodotti, che significa alzare la qualità sia del prodotto che del servizio, alzare la soddisfazione del cliente, e quindi aumentare il profitto. Vorrei che la mia banca oggi mi chiamasse per dirmi: lei da sei mesi ha sul suo conto 5 mila euro fermi, perché non li gestiamo in questo modo? Oggi, spesso non succede. Con una sartorializzazione intensa del servizio, questo diventerebbe la normalità, e io sarei molto grato alla mia banca per questa attenzione. È quello che sta iniziando a fare la medicina per la cura del corpo; lo si può fare anche per la cura delle finanze. È un futuro molto interessante, e mi auguro che l’industry bancaria stia investendo in questa direzione.
È quella che lei chiama l’economia dell’esperienza
Esatto. Io quel che voglio dal futuro è avere una buona esperienza con la banca. Non ci sono limiti al miglioramento dell’esperienza, dal momento che la tecnologia consente di abbattere i costi, e rende sempre più affordable i servizi evoluti, a fasce sempre più ampie di popolazione. Fino a dieci anni fa chi poteva permettersi un week-end a Barcellona? Oggi, con le low cost, è un’esperienza alla portata di chiunque.
Questo è il “lato buono” della tecnologia. Il timore diffuso è però che l’AI ci “rubi il lavoro” o addirittura – tornando alle patate e alle rose – l’intelligenza, ovvero la capacità di interpretare le cose, che è compito oggi eminentemente “umano”. Che diventi, insomma, lei stessa giardiniere. È un rischio che vede?
Concordo sul fatto che sia un rischio possibile, ma bisogna capire di che rischio si tratta. Vogliamo davvero delegare il momento interpretativo, decisionale, di scelta? Se io finisco per vedere solo i film che mi suggerisce l’algoritmo di Netflix, e dopo tre anni ho visto solo quel che mi è stato suggerito, chi sta gestendo i meccanismi di scelta? Se delego in maniera cieca all’algoritmo della banca i miei investimenti, e cinque anni avrò perso completamente il controllo delle mie finanze, è il chatbot il cattivo o sono io quello pigro? Il salto tecnologico, come ogni fase di progresso accelerato, crea una polarizzazione tra chi ha un atteggiamento passivo nei confronti della tecnologia, delegando le scelte a sistemi artificiali e chiudendosi sempre più in una bolla di non-decisione, e chi manterrà il controllo e la decisione, usando la tecnologia per migliorare e accrescere la propria autonomia e capacità di scelta. Sta a noi decidere.
Qui scendono in campo i temi dell’etica legata all’intelligenza artificiale, la sua “regolamentazione”, ammesso che abbia senso questo termine. A che punto siamo? Non è un po’ tardi parlare di etica dell’AI oggi?
Infatti, è tanto tempo che se ne parla. Nel 1960 la rivista Science pubblicò un bellissimo dibattito tra Norbert Wiener, padre fondatore della cybernetica, e Arthur Samuel, padre fondatore della machine learning, che mette al centro proprio i temi etici che verranno aperti dall’intelligenza artificiale. Era il 1960, ripeto. Oggi, dopo più di mezzo secolo, questi temi sono arrivati “a livello strada”, toccano chiunque in ufficio, in ospedale, influiscono sulla vita di ciascuno di noi. È la normale progressione dei grandi temi dell’umanità, di maturazione della società. I filosofi possono essere utili, in questo.