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08 Dicembre 2024 / 06:55
Toghe digitali, è l'era del legal tech

 
Scenari

Toghe digitali, è l'era del legal tech

di Massimo Cerofolini - 10 Novembre 2020
Intervista a Claudia Sandei, direttrice dell’Innovation and Technology Law Lab: le app, siti, marketplace, blockchain e algoritmi per portare efficienza e ridurre i costi nel mondo del diritto, dai contratti alla risoluzione delle controversie. In Italia già al lavoro 50 startup, oltre a diversi studi professionali e uffici legali di molte banche e assicurazioni. «La tecnologia non sostituisce gli avvocati, ma li supporta»
C’è la piattaforma per trovare l’avvocato più competente o quello più a buon mercato. C’è l’app che redige in pochi minuti un contratto completo di clausole su misura per ogni situazione. C’è il software che calcola in anticipo tempi, costi e probabilità di una causa. Anche in un mondo tradizionalmente statico come quello giuridico esonda la rivoluzione digitale. Nell’anno del covid, a livello internazionale e in parte anche italiano, sono infatti schizzati gli investimenti nel cosiddetto legal tech, la galassia delle applicazioni digitali al servizio del diritto. La figura dell’avvocato che lavora con carta e penna lascia sempre più il posto a studi professionali innovativi e a uffici legali di banche e aziende dove le operazioni più ripetitive vengono affidate agli algoritmi e i passaggi di documenti sul web certificati dalla tecnologia blockchain. Ma quali sono le soluzioni a disposizione? Quali i vantaggi e quali al contrario i problemi più ricorrenti? Ne parliamo con Claudia Sandei (nella foto), docente di Diritto Industriale e delle Nuove Tecnologie nell’Università di Padova e Direttore dell’Innovation and Technology Law Lab e del Digital Law Network.

Professoressa Sandei, cominciamo dalla definizione. Cosa si intende per legal tech?

Non esiste una vera definizione di legal tech. Possiamo dire che per legal tech, in senso stretto, si intendono tutte quelle tecnologie che possono velocizzare e rendere più produttiva l’attività dei giuristi, dai giudici agli avvocati, dai ricercatori a chi lavora negli uffici legali delle aziende, a cominciare da quelle bancarie e assicurative che macinano quantità enormi di contratti. Di fatto siamo di fronte all’esplosione di un ambito, l’informatica giuridica, che prese il via qualche decennio fa con le banche dati caricate su un dischetto dove si potevano trovare i precedenti della Cassazione. Negli ultimi mesi, con il perfezionamento dell’intelligenza artificiale e di strumenti che offrono una certezza documentale online come la blockchain, le offerte lanciate da startup, aziende informatiche e giuristi innovativi si sono moltiplicate.

Vediamole allora. Un primo utilizzo del legal tech è quello che rende più efficienti ed economiche le attività finora svolte da un operatore umano.

È tutta la sfera di programmi che rendono immediatamente disponibili documenti che a mano richiederebbero molto più tempo e costi maggiori. Ad esempio, c’è un software chiamato Luminance che aiuta chi si occupa di acquisizioni societarie nel lavoro di due diligence, ossia nell’investigazione e nell’approfondimento di dati necessari per la conclusione della pratica: il sistema è addestrato per riconoscere quasi all’istante eventuali anomalie presenti nei documenti preparatori, con una verifica che avrebbe richiesto un lavoro di ore e ore da parte di un consulente in carne e ossa alle prese con le scartoffie. All’inizio questo programma è stato adottato da grandi studi legali, come Portolano Cavallo, realtà importanti che si possono permettere il costo importante delle licenze. Ma adesso comincia a prendere piede anche nelle aziende, ad esempio del campo assicurativo e bancario, dove aiuta a gestire in modo più rapido il contenzioso ordinario, l’insoluto e le problematiche contrattualistiche.

Questi sistemi sono destinati ad operatori specializzati, come appunto gli studi legali o le grandi aziende. Ma nel legal tech entrano anche servizi rivolti al pubblico, grazie all’iniziativa di nuove startup, alcune delle quali italiane.

Sì, c’è per esempio LexDoIt, un’azienda innovativa che offre la possibilità di creare il tuo contratto automatizzato su misura e che ha già generato oltre 200mila documenti per conto terzi: in sostanza tu inserisci alcuni dati e in pochi minuti il sistema stila tutte le clausole del caso attingendo tra centinaia di diverse tipologie. Il fondatore, Giovanni Toffoletto, è un ingegnere, figlio di un celebre avvocato, che ha messo insieme quello che ha respirato in casa con la sua formazione universitaria e il suo istinto imprenditoriale. Altro esempio è Iubenda, che crea le privacy policy per i siti web compatibili con le norme Gdpr: ha avuto un grande successo dal momento in cui è cominciata la necessità dei portali di mettersi in regola con le nuove normative europee.

Ci sono anche startup specializzate in ambiti settoriali. Quali sono le più importanti?

Molte startup si stanno appunto dedicando a problematiche specifiche. È il caso di Sliding life, la piattaforma internet che mette in comunicazione, in tempo reale, chi sta affrontando una separazione o un divorzio con i migliori professionisti del settore: avvocati, prima di tutto, ma anche psicologi, mediatori familiari, pedagogisti e consulenti fiscali. Oppure c’è Kopjra, una delle prime realtà legal tech italiane, specializzata nel diritto d’autore: hanno creato un software che individua eventuali violazioni del diritto d’autore e, più di recente, un sistema per acquisire prove di materiale digitale utilizzabili in udienza. L’utilità? Se vieni diffamato sui social, non basta stampare il commento denigratorio, che è privo di valore giudiziario perché potresti averlo alterato. Ecco allora che loro offrono una sorta di console online che registra tutto ciò che fai sul computer, non solo nel video ma anche nei codici software, e comprova così che sei entrato nella pagina che contiene il messaggio sotto accusa. Rendendo la prova inoppugnabile. Stessa operazione la fa anche un altro sito che protegge le vittime delle aggressioni online, Chi odia paga, fornendo a chi denuncia strumenti da opporre in giudizio.

Sul fronte della certezza dei documenti online c’è poi il grande capitolo degli smart contract.

Il loro boom è arrivato con la diffusione della blockchain, la tecnologia capace di registrare in modo trasparente, irreversibile, certo e sicuro qualsiasi transazione in rete. Dalla celebre applicazione dei bitcoin si è passati ad altri ambiti, come appunto quello della contrattualistica. La blockchain ha infatti due proprietà fondamentali per il mondo del diritto. La prima è che crea un’evidenza incorruttibile rispetto a un fatto che avviene nella rete: e questo potrebbe essere molto utile, per esempio, nella circolazione dei lodi arbitrali e per la risoluzione delle controversie. La seconda è quella dell’automazione dei contratti: si possono cioè utilizzare software che lavorano su base programmata. Esempio: se un contratto di leasing è inserito dentro la blockchain in forma di smart contract, si può prevedere che, qualora il cliente non paghi la rata, la serratura intelligente dell’auto non si aprirà. In pratica il sistema consente di eseguire delle prestazioni in modo automatico riducendo il rischio di inadempimenti. Penso anche all’offerta di Air Help, un’azienda che tutela i viaggiatori in caso di inadempienze delle compagnie aeree: appena l’aereo atterra scatta la clausola dello smart contract e se il volo è in ritardo, automaticamente e senza possibilità di stoppare il meccanismo, l’indennizzo viene liquidato sul conto corrente del passeggero.

Poi c’è il mondo dei chatbot, messaggi automatizzati ma scritti in linguaggio naturale, per fornire le informazioni ricorrenti alla clientela.

I chatbot, in pratica robot senza ferraglia che rispondono agli utenti, si sono imposti come strumento giuridico vero e proprio. C’è uno studio legale milanese, DLA Piper, che ha sviluppato un sistema di risposte automatiche relativo al Gdpr, la normativa europea sulla tutela dei dati personali. Tutto è nato dalla difficoltà degli avvocati di replicare sempre alle stesse domande che faceva la clientela: di qui l’idea di allenare un programma di intelligenza artificiale capace di agire in autonomia.

Veniamo ai cosiddetti marketplace, simili alle piattaforme dove si trovano in concorrenza diversi alberghi o ristoranti, applicati però agli esperti di diritto.

Ci sono diverse realtà, come Avvocato Flash, Avvocloud o Avvocato 360, che creano una competizione basata prima di tutto sul prezzo. Funziona tutto sui preventivi: gli avvocati si iscrivono alla piattaforma e si contendono le richieste di potenziali clienti che lanciano una sorta di gara sui singoli casi. In questo modo il cliente ha la possibilità di confrontare i prezzi e spesso anche di ottenere una tariffa migliore, mentre i giovani professionisti hanno l’opportunità per farsi conoscere. Il meccanismo, basato anche sulle recensioni successive da parte dei clienti, è però osteggiato dagli ordini professionali che ritengono quello dell’avvocato un lavoro fiduciario che si basa su elementi più complessi che il solo costo finale. Ci sono stati richiami per violazione delle norme deontologiche, con l’accusa di svilimento della professione. La verità, credo, sta nel mezzo: da una parte questi siti modernizzano il sistema di ricerca e fruizione dei servizi legali che così diventano più accessibili anche per le fasce più deboli della popolazione, dall’altra si corre il rischio di una mercificazione delle professioni intellettuali.

Ci sono anche piattaforme simili per le aziende?

Sì, c’è 4cLegal che organizza i cosiddetti beauty contest: anche lì c’è una sorta di asta, ma anziché sui preventivi, i professionisti se la giocano sulle competenze certificate. Ha molto successo perché si rivolge alle grandi aziende dove gli amministratori delegati si garantiscono l’esenzione da responsabilità scegliendo ciò che oggettivamente appare il top. Cioè, se l’avvocato che ho scelto perde la causa, come amministratore potrei essere chiamato a risponderne. Ma potendo dimostrare di aver scelto il migliore sulla piazza, attraverso un procedimento trasparente, mi tutelo da eventuali azioni risarcitorie.

Altro aspetto del legal tech è l’uso dell’intelligenza artificiale per prevedere gli esiti delle cause.

Da noi questo metodo si può utilizzare soltanto come ricerca preventiva e di supporto, al fine di valutare le strategie processuali. In questo senso ci sono applicazioni che fanno una stima su quanto durerà e costerà una causa. Diverso il caso degli Stati Uniti, dove esiste un software, Compas, che viene usato dai giudici per stabilire la possibilità di recidiva e che incide sull’esito della condanna. Qui il rischio è quello legato ai pregiudizi di chi programma gli algoritmi: si sono state persone di colore a cui l’intelligenza artificiale ha negato un mutuo, perché i codici riflettevano le idee di chi li aveva generati. Idem per le sentenze penali. E poi questi sistemi hanno due grossi problemi: ci vogliono tantissimi dati di allenamento e questi dati devono essere di buona qualità. Insomma, è presto per parlare di automazione della giustizia. E in ogni caso in Europa le normative, anche nel campo della finanza, chiariscono che l’ultima parola deve essere affidata a un operatore umano. E che gli algoritmi, a differenza di quanto accade negli Usa, hanno soltanto un valore di ausilio alle decisioni umane.

Andiamo avanti con le proposte del legal tech: la risoluzione delle controversie online. A che punto siamo?

Finora abbiamo parlato di sistemi che velocizzano i percorsi tradizionali. Qui invece parliamo di procedure alternative. Già oggi esistono organismi legati ai consumatori che chiudono le controversie sul web, ma adesso l’idea è quella di far nascere piattaforme su base privata, sviluppate sul meccanismo della blockchain in modo da documentare con certezza giuridica l’andamento della vertenza. Ci sono startup che stanno facendo progetti pilota, come Jur, il cui Ceo è italiano ma che per ora preferisce lavorare in Inghilterra, perché da noi ci sono molte resistenze da parte degli organismi tradizionali ad accettare queste innovazioni.

Perché questo ritardo?

Per varie ragioni. Perché siamo un Paese scarsamente digitalizzato, sia in termini di infrastrutture che di competenze. Perché ci sono resistenze da parte degli ordini professionali. E perché da noi, a differenza di quanto accade all’estero dove gli avvocati lavorano come aziende che vendono un prodotto, gli studi legali sono piccole realtà, salvo rare eccezioni di tipo internazionale. Insomma faticano ad accedere a queste nuove forme, perché troppo costose.

Quali opportunità vede per le banche?

Moltissime. Le banche possono beneficiare del legal tech mettendo in piedi meccanismi personalizzati sui vari segmenti della loro attività: dai controlli ai contratti, fino alla gestione delle controversie. L’idea è che la tecnologia sollevi i reparti giuridici da quel lavoro ripetitivo e routinario che oggi occupa gran parte del tempo. La domanda di questi strumenti è così elevata che ci sono realtà, come il BeLab dello studio milanese Bonelli Erede, che ha come scopo quello di aiutare chi sposa la logica del legal tech.

 Detto così sembra che stiano segando il ramo su cui oggi siedono…

Quando si parla di automazione c’è sempre questo timore. In realtà le tecnologie legal tech non sostituiscono il lavoro dei giuristi. Ma eliminano tutti quei passaggi monotoni della professione, liberando spazio per la cura dei clienti, per gli approfondimenti, per le soluzioni più creative. Per non parlare dei vantaggi competitivi che questi mezzi offrono, riducendo i costi delle pratiche legali e allargando l’accesso alla giustizia per molte persone. In sostanza, oggi più che mai è necessaria un’integrazione tra questi due mondi, evitando che vadano ognuno per conto proprio: sempre più lenti i giuristi, sempre più veloci come cavalli impazziti i tecnologi. L’obiettivo è che gli uomini di legge imparino a parlare la lingua del digitale e che al contempo il digitale non diventi un far west senza legge. 
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