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27 Dicembre 2024 / 00:08
Tech trends 2022: sei tendenze da tenere d’occhio

 
Scenari

Tech trends 2022: sei tendenze da tenere d’occhio

di Massimo Cerofolini - 9 Gennaio 2022
Cosa ci riserva la tecnologia nel 2022? Dal metaverso al Web3, dagli Nft alle auto iperconnesse, al social commerce e ai nuovi farmaci, ecco alcune previsioni per i prossimi mesi
Sarà l’anno del metaverso, il discusso spazio virtuale annunciato da Mark Zuckerberg che ha persino ribattezzato Facebook col nome propiziatorio di Meta? Oppure la palma toccherà al social commerce, la vendita di prodotti direttamente dalle app come TikTok, senza passare per i negozi online? O sarà la consacrazione degli Nft, i certificati digitali che attestano la proprietà e l’originalità di beni digitali e che stanno già spopolando in diversi settori? Per il terzo anno di pandemia, che ha finora trascinato milioni di persone nell’universo tecnologico, si prepara uno spettacolo pirotecnico di innovazioni. Su cui è bene puntare le antenne per prepararsi al loro impatto o, semplicemente, per scoprire settori di investimento dal possibile successo. Proviamo allora a elencare quelle principali.

Metaverso

Il coperchio l’ha aperto il fondatore di Facebook, lo scorso ottobre, con la presentazione a effetto del nuovo brand, Meta, appunto. Ma poi come popcorn sono spuntati fuori i piani degli altri big della tecnologia pronti a venderci visori 3D, lenti smart, mondi paralleli e software capaci di garantire la migliore esperienza virtuale possibile. Detto in parole semplici, il metaverso è uno spazio in tre dimensioni dentro cui accedere tramite un nostro avatar, una copia digitale di noi stessi. Se oggi interagiamo su internet riempiendo un riquadro con testi, immagini o foto, con la nuova svolta saremo noi, col nostro doppio, a muoverci, comunicare, studiare, divertirci o fare acquisti. Quale sarà concretamente l’esperienza è ancora difficile dirlo. C’è chi la immagina sul modello di videogiochi come Fortnite, dove oltre alle sfide classiche è già possibile ascoltare un concerto o acquistare un paio di scarpe di marca. Più probabile però pensare a un arcipelago di metaversi su cui spostarsi con estrema facilità, sempre con lo stesso avatar che ci rappresenta, così come oggi andiamo da un sito all’altro, secondo protocolli comuni.
Intanto, accanto ai colossi come Meta, Apple o Oppo, che sfornano caschetti per la realtà virtuale e occhiali con lenti speciali per la realtà aumentata, c’è già chi pensa al prossimo inevitabile passo: dotare questi mondi immaginari dell’esperienza tattile. Con il ricorso alla cosiddetta haptic technology che permette di ingannare i sensi simulando il tatto a distanza grazie a guanti particolari, pressioni fittizie, sbalzi di temperatura, soffi, spruzzi e altre parvenze di realtà.
A che ci servirà tutto questo? In primo luogo per il gioco e l’intrattenimento, ma anche per rendere più realistico lo smart working (ricreando ambienti e colleghi di lavoro sullo schermo), per il monitoraggio delle persone anziane o in terapia, per la vendita di oggetti reali o solamente digitali (non è un caso che marchi come Gucci o Balenciaga abbiano aperto negozi nel metaverso in cui vendono sia edizioni limitate di borse da portare in giro, sia scarpe che nel mondo reale non esistono). Quanto alle banche, c’è già chi - come l’istituto coreano Kookmin - permette ai propri utenti di viaggiare in uno spazio virtuale e personale e di comunicare con lo staff per scoprire le offerte personalizzate e organizzare incontri o videochiamate.
Restano però alcuni problemi tutti da risolvere. Come quello di garantire l’identità delle persone in questo mondo parallelo, al fine di evitare truffe. E qui una delle idee è di attribuire a ciascun utente un certificato in Nft.

Nft (Non fungible token, token non sostituibili)

Eccola la sigla che il dizionario Collins ha eletto come parola chiave del 2021 (l’anno prima per capirci la scelta era caduta su “lockdown”). In pratica si tratta di un certificato digitale che attesta in modo inoppugnabile l’autenticità, la proprietà e l’unicità di beni presenti online, per loro natura altrimenti replicabili all’infinito. Basati sulla tecnologia blockchain, quella che fa girare le criptovalute come i bitcoin, gli Nft hanno già rivoluzionato il mondo dell’arte e si preparano a espugnare settori come la moda, la musica, i videogiochi, la realtà virtuale e i paesaggi del nuovo metaverso. Ma cosa significa acquistare un’opera, un vestito o un terreno che di fatto non esistono? Perché c’è gente disposta a spendere milioni di dollari per un file con la figurina di un gattino? Spiega Serena Tabacchi, direttrice del Museo di arte contemporanea digitale: «La blockchain risolve il problema della riproducibilità del digitale, visto che online puoi replicare qualsiasi cosa, come una mail o un film. Come rendere invece unico un bene fatto di pixel? Ecco, appunto, con un registro che non è centralizzato, ma che viene distribuito su una rete di computer che certificano tutte le operazioni in modo sicuro, trasparente e irreversibile. In questo modo, quando compro un’opera in Nft, non acquisto l’opera in sé, ma il mio diritto a rivendicarne proprietà».
La grande notorietà di questo sistema è arrivata nel marzo scorso quando un artista americano, Beeple, ha venduto una sua opera digitale, un collage di 5000 file, per 69 milioni di euro, più del valore delle Ninfee di Monet. E tanti suoi colleghi sono presto saliti sul carro, toccando quotazioni da capogiro. Ma, oltre al campo artistico, gli Nft hanno fatto presa anche in ambiti diversi: c’è chi ha acquistato la proprietà virtuale di case sul metaverso per oltre due milioni di dollari, ci sono state vendite a peso d’oro di prime pagine dei giornali (come il New York Times), prime versioni di siti web leggendari come Wikipedia o il primo tweet del fondatore di Twitter Jack Dorsey (quasi 3 milioni di dollari). O anche meme come Disaster Girl (aggiudicato all’asta per 500 mila dollari), video con i migliori canestri del campionato di basket Nba o pezzi musicali (Boosta, Achille Lauro e Morgan, qui da noi, i pionieri).

Web3

Folle di investitori, slanci utopistici, con frotte di ingegneri che lasciano il loro posto sicuro nelle grandi aziende tecnologiche per buttarsi sulla nuova frontiera. È partita la fuga verso il Web3, la terza stagione di internet dopo il Web1.0 degli inizi e il Web2.0 che è quello che conosciamo. Quali caratteristiche avrà? Sarà basato sulla tecnologia blockchain e sulle criptovalute come il bitcoin, gli smart contract o i certificati digitali tipo Nft. Sarà decentralizzato e indipendente dal controllo attuale delle big tech, come Facebook o Google. E permetterà di riappropriarci dei dati che ora cediamo ai padroni della rete.
Come si è arrivati a questo nuovo balzo? Spiega Juan Carlos Da Martin, direttore del Centro Nexa su Internet e società del Politecnico di Torino: «Circa trent’anni fa, a inizio anni Novanta, inizia a diffondersi il primo Web, il Web 1.0, quello inventato dal ricercatore inglese del Cern Tim Berners-Lee, che rende intuitivo trovare e pubblicare contenuti su Internet: di fatto un oceano di siti web, creati e gestiti da individui, scuole e associazioni, connessi tra loro da una ragnatela di collegamenti. È una visione decentralizzata, in qualche modo “democratica”. A inizio secolo, con la diffusione dalla banda larga che permette di fruire e pubblicare non solo testi ma anche fotografie, audio e video, arriva il cosiddetto Web 2.0, che oltre al multimedia aggiunge anche l’interattività, ossia la possibilità di commentare e comunque di interagire coi contenuti. Si apre così la strada ai “social media”: MySpace, prima, poi Facebook, Twitter, Instagram o YouTube, realtà che vivono proprio di interazioni tra utenti e tra utenti e contenuti. Il problema è che con questo modello nascono anche i monopoli della rete. Insomma, da molto “democratico” il Web diventa fortemente concentrato, dominato da una manciata di grandissime imprese che gestiscono miliardi di utenti in tutto il mondo e che sono dotate – grazie soprattutto ai proventi della pubblicità – di enorme ricchezza, di gigantesche infrastrutture e di notevole influenza culturale e politica».
Questa la premessa necessaria per capire come si arriva a questa terza fase. Da tempo infatti molti studiosi, attivisti e appassionati, in reazione ai tanti scandali creati dalle big tech, invocano un ritorno a un Web decentralizzato, un Web più “democratico”, più “egalitario”, senza le enormi concentrazioni di potere. Continua De Martin: «Da un paio d’anni, si sottolinea l’importanza di una specifica tecnologia, ovvero la “blockchain”, che si ritiene possa essere molto utile per decentrare tutta una serie di servizi: la DeFi (Finanza Decentralizzata) legata alle criptovalute come il bitcoin, la GameFi (Gaming Finance) per remunerare i giocatori sempre usando bitcoin, la creazione di opere d’arte digitali uniche, con i cosiddetti Nft, sempre usando blockchain o ancora Filecoin, per conservare i propri file in maniera distribuita, invece che centralizzata come ad esempio con Dropbox».
All’ottimismo di tanti pionieri di questa avventura si oppongono le voci di gente come Elon Musk, il visionario imprenditore di Tesla e SpaceX, che derubrica il progetto a puro marketing. Ma anche la prudenza di chi opta per un approccio realistico. «Che si debba fare qualcosa per contrastare l’enorme concentrazione di potere che caratterizza il mondo digitale è fuor di dubbio – commenta De Martin – ma temo che questi tentativi resteranno nella migliore delle ipotesi fenomeni di nicchia non solo per motivi tecnici, ma anche e soprattutto per motivi economici e persino politici. È molto ingenuo, infatti, osteggiare una concentrazione di potere e ricchezza senza precedenti nella storia con degli algoritmi, per quanto ingegnosi. Bisogna andare alla radice del problema, ovvero trovare il modo di ridare piena sovranità alla democrazia nei confronti del potere del denaro». Chi avrà ragione? Presto per dirlo. Di sicuro, di Web3 ne sentiremo parlare ancora molto quest’anno.

Social commerce

La strada è stata aperta da TikTok, l’app cinese con il maggior tasso di crescita mondiale. Tra un video di facezie e un balletto demenziale, ecco la possibilità di acquistare un prodotto o un servizio direttamente all’interno della piattaforma, d’impulso, appena appare sullo schermo. Quindi, in modo fluido, con un semplice tap, senza dover passare per il tradizionale negozio elettronico, tipo Amazon. A ruota sono poi arrivati anche gli altri social network, come Facebook, Instagram o YouTube, che applicano funzioni analoghe. Ricorda, il social commerce, un po’ le televendite delle nostre tv private. Ma la differenza sta nella scelta del personaggio che promuove l’offerta. «Il content creator – sottolinea Sandro Marranini, coo di Europe Open Influence e ospite dell’Osservatorio Marketing e comunicazione integrata di Abi – è prima di tutto un utente del prodotto in promozione, che viene eletto dalla comunità per raccontare la sua esperienza. In più la sua efficacia commerciale è direttamente proporzionale alla capacità che ha di intrattenere, informare, educare».
Perché è questa una tendenza di probabile riuscita? Perché consente un vantaggio doppio. Per chi compra: permette rapidità di acquisto; comodità di scegliere prodotti in linea con i propri gusti; un filo diretto con il brand attraverso apposite chat. Per chi vende (specie per le nostre Pmi): avere a disposizione una o più piattaforme pronte da usare e facili da impostare; nessuna necessità di creare un proprio e-commerce; minori perdite per carrelli caricati e non finalizzati, tipico delle piattaforme tradizionali. In più, cosa forse più importante, se l’influencer scelto è quello giusto si crea intorno al brand una comunità di utenti fidelizzati. In pratica, se l’e-commerce classico è stata finora un’esperienza solitaria e funzionale (desidero una certa merce, la trovo online e la acquisto), col social commerce lo shopping diventa un’esperienza collettiva, un po’ come quando a comprarsi il vestito ci si va con le amiche. Difficile da capire per chi è in là con gli anni, ma pratica molto ordinaria per tutte le generazioni di nativi digitali.

Auto elettrica e smart

Il primo segnale è l’arrivo di nuove batterie dai costi contenuti e dalle prestazioni più efficienti. Ma le ragioni per cui è facile scommettere sul successo delle auto elettriche nel 2022 sono molte. Aumentano, per esempio, i punti ricarica veloce. Così come crescono i nuovi modelli, con prezzi di gamma sempre più abbordabili. Non solo. Ci sono gli incentivi e i vantaggi di poter accedere alle zone di traffico limitato e ai parcheggi speciali. E a fare il resto ci pensano la pressione della Tesla e dei produttori cinesi sul mercato tradizionale, il divieto di produrre auto a motore termico dal 2035 deciso dall’Unione europea, gli stimoli del Next Generation Plan, insieme a una crescente sensibilità ambientale.
Ma accanto alla sostenibilità il punto di forza delle nuove macchine sta nell’“intelligenza” dei loro apparati digitali per gestire consumi, sicurezza e persino intrattenimento. Oggi le vetture somigliano sempre più a smartphone con quattro ruote. Con modelli che arrivano a caricare fino a 150 unità elettroniche in grado di governare qualsiasi situazione: dall’assistenza alla guida, sempre più verso livelli elevati di autonomia, all’ottimizzazione energetica, alle frenate, alla navigazione personalizzata, al parcheggio e via dicendo. E che il software prenda sempre più il sopravvento sul valore dell’auto (oggi sfiora il 40 per cento) lo dimostra anche la maggiore fiera dell’elettronica mondiale che si è chiusa in questi giorni a Las Vegas, il Ces, dove i tradizionali espositori di computer e televisori hanno lasciato il posto ai grandi attori della mobilità.

Nuovi farmaci

Il metodo usato con i vaccini anti covid rimarrà. Nuove metodologie, uso di supercalcolatori per simulare i processi, insieme a grosse iniezioni di denaro, permetteranno di creare velocemente anche altre medicine e altri vaccini. A imprimere la direzione saranno soprattutto i big data, le grandi quantità di dati a disposizione degli scienziati, che grazie all’intelligenza artificiale potranno accelerare la scoperta di nuove molecole e calibrare i dosaggi con precisione. 
Per il resto, cosa aspettarci sul fronte della salute? «Le novità – prevede Roberto Ascione, fondatore di Healthware Group e autore del libro Il futuro della salute – sono tantissime: videoconsulti e sedute di psicologia online, app per controllare macchie e nei sulla pelle, dispositivi da polso per misurare l’ossigeno nel sangue. E poi: terapie digitali, autorizzate dagli enti del farmaco e prescritte con tanto di bugiardino come fossero pasticche, algoritmi per interpretare una radiografia, gemelli virtuali dell’organismo su cui sperimentare i trattamenti. Un ventaglio di proposte per una cura sempre più preventiva, personalizzata, integrata e collettiva”.
Un’altra novità di rilievo arriva dagli Stati Uniti. Si tratta delle terapie psichedeliche per trattare disturbi della mente, come depressione, dipendenze o tendenze suicide. Racconta Federico Menapace, 38 anni, triestino residente a San Francisco, direttore strategico di Maps, onlus americana che promuove cure a base di Ecstasy, funghi allucinogeni e altre sostanze che favoriscono l’espansione di coscienza: «Nulla a che vedere con gli sballi e con le droghe del passato. In questi processi, ai pazienti vengono date massimo tre dosi durante una lunga psicoterapia in ambienti clinici protetti. L’Ente del farmaco americano è al termine della sperimentazione e dovrebbe autorizzarne l’uso il prossimo anno. Per l’Europa, test in corso, si parla del 2024. E oltre all’impegno delle maggiori università del mondo (Europa compresa), sono già 400 le startup pronte a lanciarsi in questo nuovo mercato». Così, dopo la criminalizzazione (in larga parte giustificata) degli allucinogeni negli anni Settanta, c’è chi parla di Rinascimento psichedelico. Un settore emergente, al di là delle probabili polemiche nel nostro Paese, da guardare con grande attenzione.
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