La banca del futuro? Una comunità di utenti
di Massimo Cerofolini
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19 Gennaio 2021
Marta Mainieri, autrice del volume Community economy, le piattaforme collaborative rappresentano un modello efficace anche per le banche. «Oggi ciò che fa la differenza è alimentare una comunità di persone che si riconoscono attorno al brand», dice. «Come? Aprendo sul web canali di scambio con i clienti per favorire co-creazione e co-gestione dell’attività, ma anche aggregando le persone su un impegno civile, per migliorare insieme la società e partecipare a un progetto carico di valore». L'intervista.
Che cosa definisce la missione ultima di un’azienda? Fino a poco fa la risposta era semplice: vendere un prodotto o un servizio sul mercato. Da qualche tempo, però, le cose stanno cambiando. Realizzare una mercanzia di qualità resta fondamentale. Ma non basta. Quello che sempre più spesso fa la differenza è coltivare una comunità di persone che si riconoscono attorno a un certo marchio. Perché? Perché questa soddisfa un bisogno inevaso, perché lega interessi simili, perché promuove una comunanza di valori. C’è insomma un nuovo modello economico che si sta affermando, specie con questa crisi dovuta alla pandemia. Ed è quello della community economy, l’economia basata sulla collettività di individui che si ritrova nelle scelte di un’impresa. A volte nasce dalla frustrazione di qualcuno che vuole colmare una mancanza, come BlaBlaCar (per i viaggiatori a basso budget) o GenGle (per le mamme single), e poi si struttura come azienda. Altre, al contrario, da società tradizionali che sperimentano un approccio più condiviso. Come Adidas che ha creato la piattaforma in cui, oltre alle scarpe, fornisce la possibilità di correre con altri appassionati, piani di training, consigli da allenatori esperti e consulenze nutrizionali. O come il bar milanese che diventa anche portineria e coworking. Insomma, un universo di idee da cui possono nascere strategie e modelli organizzativi inediti. Anche per le banche. Ne è convinta Marta Mainieri, fondatrice della piattaforma Collaboriamo, organizzatrice della manifestazione Sharitaly e autrice del libro Community economy (Egea edizioni), piccolo manuale d’istruzioni su come costruire processi, figure professionali, monetizzazioni e cicli di vita di un community brand, con un ricco ventaglio di buone pratiche. L’abbiamo intervistata.
Cos’è la community economy?
La community economy è un'economia formata da aziende e organizzazioni che mettono al centro della loro strategia di business le comunità di persone. Si tratta di imprese che non producono più linearmente, cioè secondo un ciclo del valore che parte dalla ricerca di mercato per arrivare alla erogazione di un servizio o di un prodotto, ma che aggregano persone intorno a un'idea, derivata da una passione, una condizione comune, uno scopo o una pratica. E così da questo nucleo iniziale nasce l'organizzazione. Dall’ascolto dei membri l’ideazione di servizi specifici. Dall’insieme delle offerte il business. Con un mercato che ha già con un pubblico di riferimento.
Da dove ha preso le mosse questa tendenza?
La tendenza è sicuramente figlia della trasformazione digitale. Già nel primo decennio degli anni 2000, con l’arrivo dei social network, internet diventa lo strumento per aggregare intorno a un’idea persone affini tra loro. Magari all’inizio si parte per gioco, per il desiderio di condividere ciò che si pensa o si vorrebbe. Poi piano piano il gruppo prende forma, si gonfia e raggiunge una massa di persone tale da non rendere più possibile la gestione su base volontaria. È qui che si comincia a riflettere su come monetizzare questa risorsa fiorita spontaneamente. È qui che in genere ci si struttura su basi sempre più professionali, offrendo le soluzioni ai problemi che emergono, grazie all’ascolto volta per volta dei suggerimenti e delle critiche che arrivano da chi è coinvolto nella community. Fino a che il nucleo di partenza si trasforma in una vera e propria impresa.
Ci può fare qualche esempio?
Ce ne sono diversi. Penso ad esempio a ScuolaZoo, che oggi è un’azienda parte di un grande gruppo. Ebbene, tutto nasce nel 2009 dall’idea di un ragazzo che decide di aprire un blog per raccontare il mondo della scuola. Poco alla volta la comunità è cresciuta al punto che oggi conta quattro milioni di follower solo su Instagram. Ma oltre a informare sulle tematiche care agli studenti è un’impresa con più di cento dipendenti che organizza viaggi e iniziative a cui partecipano migliaia di giovani e pubblica un diario tra i più venduti in Italia. Oppure penso a Friendz, nata nel 2015 per unire gli appassionati di foto sui social network e diventata uno strumento per creare originali campagne di marketing con il contributo di tanti creativi, i cosiddetti micro-influencer. Ma la lista è lunga: c’è Avventure nel mondo che unisce i viaggiatori alternativi fuori dalle rotte turistiche ufficiali o SheTech, comunità di donne decise ad affermare il loro ruolo all'interno del mondo digitale: organizzano incontri e si scambiano consigli, ma soprattutto mettono a disposizione la propria competenza alle imprese interessate.
E per quanto riguarda le aziende già strutturate su modelli di business tradizionali?
Chiaramente per queste imprese il discorso è diverso, perché la loro identità è già forgiata intorno al prodotto o al servizio su cui sono attive. Ma quello che possono fare è introdurre come metodo generale l’approccio community based, ossia mettere la comunità al centro della propria filosofia di crescita. In pratica, possono sviluppare i loro progetti non più a partire dall’alto, ma al contrario facendoli fiorire dal basso, attraverso un ascolto attento delle persone più vicine allo spirito del brand. Come se gli utenti fossero dei co-progettisti o dei co-gestori. Penso ad Adidas che ha creato una piattaforma in cui non si limita a vendere le scarpe ma dove fornisce una lunga serie di servizi a beneficio di chi corre, dalla ricerca dei partner alle consulenze sugli allenamenti e sulla dieta. O penso a Leroy Merlin, dove accanto ai prodotti per il fai-da-te si organizzano corsi e incontri o si allestiscono spazi per la vendita delle creazioni artigianali. Così, allo stesso tempo, l’azienda si mette in contatto con futuri potenziali clienti a cui difficilmente riuscirebbe ad arrivare, raccoglie idee originali, immagina nuovi prodotti e servizi da includere nella propria offerta. Riesce cioè a comprendere più a fondo le esigenze di alcune nicchie di mercato altrimenti difficili da afferrare. In più capisce il funzionamento delle comunità senza stravolgere il proprio modello di business o di organizzazione.
Un altro modo per nutrire una comunità è sposare cause civili, dall’ambiente alle battaglie contro bullismo e discriminazioni: è quello che viene chiamato brand activism.
Questa è una conseguenza abbastanza naturale di una community. La quale, per definizione, nasce da un’idea che ha spesso a che fare con una frustrazione, qualche cosa da rivendicare e per cui qualcuno è disposto a battersi. Pensiamo a Gengle, una comunità sorta per combattere la solitudine e le difficoltà dei genitori single. Hanno iniziato come luogo in cui scambiarsi sfoghi, consigli e aiuti e hanno poco alla volta organizzato incontri nella vita reale. Oggi Gengle è sia un'organizzazione non profit che affronta le difficoltà e i problemi dei genitori single, sia una Srl che fattura i servizi offerti, come consulenze professionali, viaggi e attività editoriali. Insieme un gruppo di pressione sociale, ma anche un mercato con un certo peso. Quanto alle aziende classiche è sempre più diffusa la tendenza a sposare tematiche anche scomode e trasformarsi in portavoce di battaglie come la lotta alle discriminazioni o la sostenibilità ambientale.
E per i negozi fisici cosa può significare la community economy?
In un momento di grande difficoltà per i piccoli esercizi, la community economy può aprire qualche spiraglio per respirare: diventare dei punti di riferimento nel quartiere non solo per i prodotti venduti abitualmente, ma anche per tutti quei servizi che in qualche modo possono essere legati all’attività. A Milano, per dire, c’è un negozio di articoli sportivi che si è reinventato organizzando eventi, test, corse fuori città, gare e incontri con gli esperti. Non si va più lì solo per comprare scarpe, che magari trovi su internet a prezzi inferiori, ma per far parte di un gruppo di persone con gli stessi interessi e desiderose di relazioni significative. Oppure, sempre a Milano, ci sono bar che hanno sposato la filosofia della community mettendo a disposizione servizi di portineria per la consegna dei pacchi o spazi attrezzati per svolgere attività di smart working. Stanno diventando dei punti d’incontro importanti per diverse generazioni di lavoratori.
In che modo questo modello potrebbe dare spunti di sviluppo alle banche?
Per restare sul piano del negozio fisico, pensiamo alle filiali. Nell’era post covid il loro ruolo potrà trasformarsi, diventare un punto di riferimento capace di intercettare e ascoltare i bisogni delle comunità presenti nel quartiere. E, a partire da questo coinvolgimento diretto, le banche potranno immaginare servizi pensati su misura per quelle specifiche necessità. Ma anche al suo interno la banca può beneficiare della community economy. Con l’introduzione massiccia dello smart working, andrà rivista anche l’organizzazione interna: a un sistema dove le decisioni vengono dall’alto, può subentrare uno di tipo collaborativo, in cui ogni dipendente è anche un progettista e allo stesso tempo un co-produttore del valore aziendale. L'approccio community-centred è un approccio che aggrega le persone intorno a delle idee organizzative, di business, di nuove pratiche: possiamo pensare a piccoli team all’interno dell’azienda per favorire la trasformazione digitale, tecnologie per migliorare il coordinamento senza colli di bottiglia, piattaforme per far emergere i talenti e le persone più attive. Quei dipendenti, oggi magari concentrati sullo sviluppo interno, che però poi attirano più clienti grazie alla passione con cui fanno le cose....
Anche verso i fornitori può funzionare il modello community?
Certo, i fornitori non devono essere semplicemente trattati come persone che offrono servizi dall’esterno, ma come dei veri e propri partner. È per esempio quello che fa Haier, multinazionale cinese che fa elettrodomestici e che ha lanciato una piattaforma di open innovation con i propri fornitori: di fatto un sistema per scambiarsi idee e consigli, per capire come migliorare i prodotti e per lanciarne di nuovi.
E rispetto alle piattaforme, che cosa possono fare le banche?
Le banche ormai si muovono con grande dimestichezza sul web. E in ogni caso non c'è community digitale che poi non abbia una ricaduta sul territorio e viceversa. Quindi suggerirei due cose: da una parte aprire canali di conversazione e di scambio costante con gli utenti, per favorire questa sorta di co-creazione e co-gestione dell’attività; dall’altra, di aggregare le persone intorno a un impegno civico, promuovere azioni concrete per obiettivi sociali importanti, sposare valori effettivamente sentiti dai cittadini.