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19 Aprile 2024 / 14:51
Il mondo cambiato dai social

 
Fintech

Il mondo cambiato dai social

di Ildegarda, Ferraro - 22 Giugno 2016
Una approfondita ricerca, Why we Post, traccia le linee di quanto possano essere diversi gli effetti dei social media in aree distanti e su culture differenti. Certo stanno influendo e modificando il quadro. E d’altra parte il mondo sta cambiando i social, che sono quello che noi siamo e non quello che prevedono gli sviluppatori delle piattaforme ...

Cento storie

Che Facebook possa essere molto diverso per un liceale inglese oppure per un contadino del sud dell’India è evidente. Che Facebook, Twitter, WhatsApp e gli altri social media stiano espandendo i propri effetti sul mondo, in un mix di reazioni diverse, è altrettanto naturale. E nello stesso momento il mondo cambia i social media, che diventano altro rispetto allo schema con cui sono stati costruiti. Interessante imbattersi in analisi sul campo, che possono dare il polso effettivo dell’impronta, come “Why we Post”, l’indagine antropologica globale che può contare su cento film e storie.
Sud dell’India, il ragazzo seduto nei campi guarda lo schermo di uno smartphone ( guarda il video ). Racconta che non hanno auto e nemmeno un ospedale, che forse arriveranno. Per andare a scuola camminava per quattro chilometri per prendere un autobus. Quello che fa la differenza è che lui e i suoi amici hanno un mobile e hanno Facebook.
Sempre nel Sud dell’India sedute su di un divano una signora hindi e una tamil raccontano del loro gruppo tra donne ( guarda qui il video ). Si scambiano impressioni ogni giorno, si sostengono, si divertono e si insegnano le “parolacce” da usare per strada per tenere lontani i malintenzionati.
La donna del nord del Cile usa WhatsApp per tenere i contatti con il marito minatore, che lavora sette giorni di seguito in miniera ( clicca qui ). Il telefono costerebbe troppo e WhatsApp permette di essere sempre vicini, di scambiarsi foto e di sostenersi. Lei con Facebook ha anche trovato lavoro. Compra abiti usati e li rivende usando proprio Facebook.
I liceali di un piccolo centro vicino Londra usano Twitter per tenersi in contatto, per mandarsi immagini, anche uglie selfie ossia foto con il telefono in cui ci si imbruttisce, che pare siano una caratteristica degli adolescenti per sottolineare il legame reciproco profondo. A Trinidad e in altre aree del mondo i selfie sono invece un dato sociale. Lo scatto con il mobile può anche essere un modo per rappresentare la famiglia o una collettività.

Nove antropologi, quindici mesi in aree diverse del mondo

I racconti sono tutti dell’approfondita analisi “Why we Post” , messa a punto da un gruppo di nove antropologi guidati da David Miller dell’University College di Londra. Lo studio è stato portato avanti per 15 mesi in Brasile, Uk, Cile, Cina in un sito rurale ed in uno industriale, India, Italia, Trinidad e Tobago, Turchia.
In questo momento tutte strade sono possibili. La statistica continua a fare il suo corso, anche se i big data, ossia l’enorme mole di informazioni che i nuovi protagonisti del web come Google riescono a incamerare e gestire, sono la nuova frontiera e spesso tracciano quadri più approfonditi e inesplorati. Ma intanto continua ad avere la sua forza il ricorso agli antichi strumenti dell’antropologia, che invece del dato totale punta a capire da dentro i riflessi di un fenomeno.
La ricerca “Why we post” è aperta a tutti. Si può entrare, leggere il volume generale e le monografie uscite sino ad ora, studiare i filmati su YouTube. Si può anche decidere di partecipare al corso liberamente fruibile in 8 lingue. C’è anche l’italiano, ma il corso è di matrice anglosassone ed è assodato che si conosca l’inglese. E ci sono gli esercizi, per capire di più e provare a dare proprie risposte a che cosa sono e a che cosa possono servire i social media. L’obiettivo è avere una ricerca globale in costante costruzione. E comprendere le conseguenze dei social media sulle persone del mondo.

I social non sono uguali ovunque, non sono sempre la stessa cosa

Secondo “Why we post” se Facebook, Twitter, WhatsApp, Instagram sono piattaforme. I social media rappresentano molto di più, sono il contenuto che noi produciamo e le conseguenze sulla nostra vita. Relazioni che si stringono e rapporti che si rompono. Maggiore educazione da un verso e difficoltà di concentrazione per un altro. I social media creano uguaglianze e rafforzano disuguagliane, raccontano ogni aspetto importante della nostra vita. Insomma, tutto e il contrario di tutto. Sono in fondo quello che noi vogliamo che siano. Perché secondo i ricercatori di “Why we post” sono gli utenti che creano i social media.
Un social non ha certamente la stessa prospettiva per un operaio in Cina, per in informatico in India e per uno studente in Gran Bretagna. In alcune aree possono dar vita a maggior interesse e attitudine all’istruzione, nel senso che rappresentano una via all’educazione, in altre sono un modo per passare il proprio tempo con amici, in altre ancora i social possono essere addirittura più conservatori della vita offline visto che possono creare possibilità di contatto senza precedenti.
“Why we Post” propende per una nuova idea di social media, definendoli in termini di scalable sociality, ossia di socialità modulabile, tenendo in considerazione i vari livelli di privacy e le diverse dimensioni dei gruppi. I social superano la vecchia distinzione tra comunicazione pubblica e privata, lasciando nelle nostre mani l’apertura maggiore o minore.
E ovviamente i social si modificano e cambiano per effetto di tutto quello che vi fluisce sotto l’impatto delle nostre azioni quotidiane.

Il selfie sociale e quello uglie – meme o non meme

E così quello che per noi può essere un semplice scatto dallo smartphone per “Why we Post” diventa un capitolo di studio. Per esempio in Inghilterra, tra gli studenti, ci son tre tipi di selfie: classici, di gruppo, che rappresentano in genere gli amici e hanno molto maggior successo degli altri su Facebook, e quelli “uglie”, in cui ci si racconta come orribili mostri. L’idea è che rappresentarsi al peggio sia un modo per avvicinarsi, una via per dire: “sono così a mio agio con te, mi fido tanto da mandarti la mia immagine peggiore”. In Italia va soprattutto il selfie classico. In Brasile i selfie dalla palestra. In Cile sono un modo per raccontarsi insieme agli altri.
E poi ci sono i meme, immagini oppure frasi fatte che si diffondono, ossia che possono diventare virali su Internet. I meme servono spesso per fare da schermo, per non esporsi. Si va da quelli seri, religiosi per esempio, a quelli divertenti per buttarla sull’ironico. Perché si può anche decidere di esprimersi attraverso uno schermo.
In ogni caso “Why we Post” fa analisi approfondite di tutto quanto ci scorre davanti e scopre passaggi nuovi. Per esempio che i social non ci stanno rendendo più individualisti, oppure che l’uguaglianza online non è sinonimo di uguaglianza offline, o ancora che i social media non stanno rendendo il mondo più omogeneo.

I social cambiati dal mondo

Ovviamente sono antropologi, e consigliano di esercitarsi in una propria ricerca, definendo il proprio campione sui social che si frequentano. Ci tengono a sottolineare che sono gli utenti che creano i social media e non gli sviluppatori delle piattaforme. E ci si sente un po’ partecipi della costruzione e un po’ studiosi del secolo scorso. Anche se non ci si muove dal proprio tablet o dal proprio smartphone per studiare le tribù in cui ci si imbatte.
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