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28 Marzo 2024 / 18:08
Francesca Bria: "I dati ci salveranno dal virus e dalla crisi economica"

 
Scenari

Francesca Bria: "I dati ci salveranno dal virus e dalla crisi economica"

di Massimo Cerofolini - 5 Giugno 2020
Rappresentano la materia grezza dell’economia digitale e un loro uso intelligente è di grande interesse pubblico. Sono i dati prodotti dagli enti pubblici, dai ricercatori, dalle aziende private, ma anche quelli che ogni giorno generiamo noi cittadini. Francesca Bria, presidente del Fondo Nazionale Innovazione, propone una via europea al controllo sui dati prodotti online e lancia la sfida per finanziare le aziende italiane che guardano al futuro
Ci salveranno i dati. Quelli degli enti pubblici, quelli dei ricercatori, quelli delle aziende private, comprese ovviamente le banche. Ma anche i dati che ogni giorno produciamo noi cittadini, spesso senza neppure rendercene conto. Ci salveranno queste linee infinite di numeri grezzi, scomposti, se qualcuno saprà raccoglierli, organizzarli, processarli fino a estrarne come succo le soluzioni migliori per combattere la battaglia contro l’epidemia e quella, forse più impegnativa, contro la crisi economica. Il tutto a condizione che il controllo di queste informazioni non finisca nelle mani di pochi padroni del web, ma resti nella disponibilità di tutti. In sintesi è questo il pensiero di Francesca Bria, economista, da gennaio presidente del Fondo Nazionale Innovazione, l’organismo finanziato da Cassa Depositi E Prestiti per sostenere le aziende proiettate nel futuro. Nel suo curriculum, Bria vanta un rosario di esperienze nel pianeta digitale che l’hanno spostata più volte in giro per il mondo: esperta di nuove tecnologie per la Commissione europea, ambasciatrice sulle smart cities per le Nazioni Unite, docente di Innovazione all’University College di Londra, fino all’incarico di assessore alla Tecnologia del Comune di Barcellona.

Dottoressa Bria, perché abbiamo sempre più bisogno di utilizzare i dati?

I dati sono la materia grezza dell’economia digitale e un loro uso intelligente, specie in questa emergenza in cui si è accelerato molto il ricorso alla tecnologia, è di grande interesse pubblico. Direi che i dati sono diventati un vero e proprio campo di battaglia nella guerra contro il Covid-19: moltissimi paesi stanno infatti utilizzando metodi sofisticati per raccogliere e analizzare i dati applicandoli alla gestione della pandemia. Dal monitoraggio che vediamo tutti i giorni sul numero dei contagi a quello dei tamponi e dei test. E anche in questa fase di ripartenza il loro uso è determinante: ad esempio pensiamo alle app per il tracciamento dei contatti o al fatto che gli scienziati di tutto il mondo stiano ora condividendo una banca dati mondiale per scambiarsi i risultati delle ricerche e trovare, speriamo presto, le soluzioni per le cure al virus. Ma non è tutto. Per monitorare l’evoluzione della crisi, possiamo integrare diverse sorgenti di dati anonimi: come quelli dei sistemi sanitari regionali, che devono essere sempre tempestivi, attendibili e forniti con criteri e parametri omogenei, i dati demografici e occupazionali, i dati per studiare l’impatto economico e ambientale di una crisi che non è solo sanitaria ma anche economica o quelli sulla mobilità. Un’applicazione interessante riguarda poi i dati provenienti dagli operatori telefonici per capire dove scoppiano i focolai e come valutare l'impatto delle politiche pubbliche di contenimento. Tutti questi dati possono poi finire dentro dei cruscotti che ne facilitino la lettura e l’analisi, rilasciandoli anche in forma aperta. In questo modo si possono sviluppare dei modelli di previsione e di monitoraggio dell'epidemia anche nelle fasi successive, collaborando ad esempio con centri di ricerca su progetti di intelligenza artificiale.

Vediamo un po' meglio la natura di questi dati, che arrivano sia da organismi pubblici e privati, sia da ciò che ogni istante facciamo tutti quanti su Internet, che ce ne rendiamo conto o meno.

Sì, ad esempio, creiamo a getto continuo queste masse di informazioni quando siamo sui social, quando lavoriamo su Internet, come con lo smart working e nei momenti in cui usiamo le piattaforme per l'educazione a distanza, ma anche quando utilizziamo lo smartphone: senza saperlo possiamo comunicare i nostri spostamenti e i luoghi che siamo soliti frequentare, dunque le nostre preferenze. Possiamo scaricare delle app, magari per le ricette di cucina, ci chiedono di autorizzare la geolocalizzazione, anche se in apparenza non ci sarebbe alcun bisogno di localizzarci. E addirittura produciamo dati con dispositivi esterni, ad esempio quando utilizziamo le carte di credito per i pagamenti, con gli smartwatch o con le webcam che rilevano battito cardiaco. Per non parlare delle telecamere di sorveglianza presenti nei centri urbani. Tutta questa attività produce dati e bisogna dire chiaramente che quando si parla dei dati, che poi sono il cuore del modello di business delle piattaforme digitali, si parla anche della gestione delle grandi infrastrutture su cui viaggia l'economia del futuro. Come il cloud, il 5G, l'intelligenza artificiale. Ovvero parliamo di dati e di grosse infrastrutture a cui va riconosciuto il forte valore pubblico.

Si dice che i dati sono il nuovo petrolio. E non è un caso che facciano sempre più gola alle grandi centrali del crimine che usano ogni artificio per impossessarsene, magari al fine di rubare le password dei conti correnti o di impadronirsi di cartelle cliniche per potenziali ricatti. Di fatto però il grosso del controllo dei dati è nelle mani o dei governi o delle grandi compagnie americani, a cui ora si accodano i big cinesi, che offrono i servizi più popolari del web: Amazon, Google, Facebook, Netflix, Apple, ma anche Alibaba solo per dirne qualcuna. È così?

Sì, negli ultimi dieci anni c’è stata una polarizzazione tra due campi: da una parte il Big State, il potere dei governi sulla galassia digitale, con un pericolo di una centralizzazione a volte autoritaria e una potenziale sorveglianza dei cittadini; dall’altra il Big Tech, con i dati che diventano moneta della società digitale, attraverso la profilazione degli utenti e il conseguente commercio gestiti dai colossi del web. Oggi però è importante mettere in atto una terza via, un mix di nuovo design tecnologico, con architetture informatiche che minimizzino il numero di dati, proteggendo la privacy e restituendo il controllo delle informazioni ai cittadini.

Questo nuovo modello di governance dei dati lei lo ha sperimentato fino a pochi mesi nella sua precedente veste di assessore all'Innovazione al Comune di Barcellona, in Spagna. Come ha attuato questa terza via alla gestione dei dati?

Nelle moderne società digitali la domanda politica fondamentale è chi controlla i dati e l’intelligenza artificiale, la cui risposta determinerà chi fissa le regole del gioco. A Barcellona abbiamo sperimentato quella che io chiamo una terza via europea per la sovranità digitale, ovvero un modello di gestione democratico dei dati in cui questi diventano un bene comune, un’infrastruttura pubblica che le città possono utilizzare per risolvere i problemi ambientali e sociali e allo stesso tempo preservando la privacy, la sicurezza e i diritti dei cittadini. Abbiamo dunque creato una piattaforma che si chiama Decode, basata sulla blockchain e sulla crittografia, che offre la possibilità ai cittadini di decidere quali dati condividere, con chi e a quali condizioni.

Facciamo qualche esempio per capire meglio.

Certo, ad esempio, abbiamo sviluppato una piattaforma per la democrazia partecipativa che integra la presenza sul territorio con quella online. L’hanno usata ben 400 mila persone che in questo modo hanno partecipato attivamente alle scelte politiche della città: il 70% delle proposte del programma municipale sono arrivate direttamente dai cittadini, che sulla piattaforma mantengono il controllo dei dati stessi. Altri esempi sono l’uso dei dati nella gestione dei problemi urbani: grazie a questi abbiamo disposto una serie di blocchi alle auto, chiudendo al traffico dodici distretti, triplicando le piste ciclabili, incentivando la mobilità elettrica. Risultato, abbiamo ridotto del 40% le emissioni di Co2 e recuperato il 60% dello spazio pubblico. Non solo. Abbiamo consegnato ai cittadini dei sensori low cost che permettono di gestire in maniera intelligente i rifiuti, l'acqua, la luce e la mobilità. Insomma grazie ai dati abbiamo migliorato la città rendendola più vivibile, con l’aria più pulita e tantissimi spazi verdi.

Questo su scala locale, sia pure in un’area enorme come quella di Barcellona, ma su dimensioni nazionali è possibile fare molto di più. In questi giorni sta partendo la sperimentazione dell’app Immuni, scelta dal ministero dell’Innovazione e da quello della Sanità per rilevare i possibili contagi del coronavirus. Lei ha fatto parte della task force che ha selezionato i progetti in lizza. Pensa che funzionerà?

Credo che l’app possa essere un ausilio molto importante per rendere più rapido ed efficace il tracciamento dei contatti, che ora avviene solo in maniera manuale, grazie al coinvolgimento dei cittadini attraverso la loro partecipazione attiva. L’Italia ha seguito la strategia europea che mette al centro privacy e sicurezza degli utenti. L’applicazione si scarica sullo smartphone in maniera volontaria, funziona attivando la connessione Bluetooth e ci invierà una notifica se entriamo in contatto con qualcuno che è risultato positivo al Covid. Si baserà inoltre su un codice sorgente aperto e pubblico. E i dati saranno anonimizzati usando delle tecniche robuste di crittografia. In più, una volta raggiunte le finalità, questi saranno cancellati. Tutto il sistema usa un’architettura decentralizzata per garantire la privacy e minimizzare l'utilizzo dei dati secondo il protocollo sviluppato da Apple e Google. Quanto alla gestione ci penseranno due società pubbliche italiane, Sogei e PagoPA, con l'infrastruttura che avrà sede in Italia. L’app in questo modo può essere interoperabile, ovvero i cellulari iOS e Android potranno comunicare tra loro e funzionerà in tutta Europa anche con il roaming.

A proposito d’Europa, è immaginabile una grande piattaforma europea che superi l'oligopolio delle grandi compagnie tecnologiche?

Io credo che la strada che mette al centro i diritti dei cittadini sui propri dati deve essere un modello per l’Europa: creare una piattaforma a livello comunitario significa rendere più competitive le nostre imprese.

E a chi teme comunque un’ingerenza sulla nostra privacy, malgrado tutte gli accorgimenti messi in campo con Immuni, cosa risponde?

Che in realtà abbiamo scelto la versione più sicura, con un’infrastruttura decentralizzata che minimizza l'uso dei dati e che mette al centro la privacy dei cittadini. Quindi io credo che abbiamo bilanciato la necessità della sanità pubblica di spezzare la catena del contagio preservando al contempo i diritti alla privacy delle persone. Alla fine si è raggiunto il migliore dei possibili compromessi. A questo punto mi auguro che l'app venga integrata ai sistemi sanitari sia regionali che nazionali. E che la scarichino in tanti.

L’app da sola, comunque, non risolve il problema dei contagi.

Bisogna rifuggire da qualsiasi forma di soluzionismo tecnologico. L'app è solo il tassello di una strategia territoriale sanitaria complessiva in grado di isolare e contenere le catene del contagio usando le famose tre T: testare, tracciare, trattare. Di fatto va a potenziare il lavoro del personale umano e della sanità sul territorio: dovremo assumere moltissimi tracciatori manuali e accrescere la capacità di fare tamponi. A breve partono i test in alcune regioni pilota, poi il Ministero della Salute ci fornirà più informazioni su cosa fare se scopriamo di aver avuto un contatto con persone positive al virus.

Lei da qualche mese è presidente del Fondo Nazionale Innovazione. È un ruolo che le consentirà di dare un sostegno alle tante start-up che hanno proprio i dati nel loro Dna. Cosa si aspetta?

Nel pieno della crisi abbiamo investito 21 milioni sullo Spazio, finanziando le aziende innovative che creano servizi a partire dai dati ricavati dai satelliti: è una priorità strategica per l'economia del futuro. Credo poi che servano idee nuove per il dopo Covid e le start-up italiane, con le piccole e medie imprese innovative, sono determinanti per progettare il futuro. Il Fondo Innovazione ha a disposizione un miliardo di euro e va visto come una leva per rigenerare il tessuto produttivo e far emergere quello che c'è di innovativo nelle università, nei centri di ricerca, grazie al talento dei giovani imprenditori e dei ricercatori. Ci attendono sfide enormi, specie nel campo dell’energia, del biomedicale, dell’agritech e nelle nuove infrastrutture come l’intelligenza artificiale, il 5G, i supercomputer. Dobbiamo crederci.
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