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28 Marzo 2024 / 21:14
Facciamo sul serio: comunichiamo giocando

 
Scenari

Facciamo sul serio: comunichiamo giocando

di Massimo Cerofolini - 18 Ottobre 2021
Dal metaverso alla realtà virtuale, dai videogiochi alla narrazione transmediale, così le banche possono trasformare le nuove frontiere della gamification in un’opportunità per comunicare, formare i dipendenti, selezionare il personale con le competenze più adatte. Il tema al centro del terzo appuntamento dell’Osservatorio Marketing e comunicazione digitale di ABI
«Finora siamo stati un’azienda di social network, adesso diventeremo un’azienda del metaverso». Se Mark Zuckerberg in una recente intervista arriva a cambiare la missione storica di Facebook con un nome preso da un libro di fantascienza del 1992 vuol dire che qualcosa di grosso sta per accadere. Detta in parole povere, il metaverso è quello spazio online dove possiamo spostarci e interagire attraverso un nostro avatar, una copia digitale di noi stessi. Ed è diventato una sorta di terra promessa, gonfia di investimenti miliardari, non solo per l’ex ragazzo prodigio di Menlo Park, ma un po’ per tutta la compagnia dei titani del web, da Microsoft a Google e a TikTok.
È a videogame come Fortnite o Minecraft che oggi bisogna volgersi per avere un’idea di questo futuro. Luoghi immaginari che, accanto alle partite di giocatori di ogni età, ospitano sempre più spesso eventi, commerci, luoghi e situazioni che si possono tranquillamente vivere nella vita reale. Ma dove porta questo passaggio dalla sfera ludica a quella dei tanti ambiti diversi dall’intrattenimento? E in che modo le banche possono fruire e beneficiare della cosiddetta gamification, la “giochizzazione” di attività come la promozione, la vendita o la formazione? Da questa domanda è partito il terzo incontro dell’Osservatorio marketing e comunicazione digitale, curato per ABI da Daniela Vitolo.

Il regno degli avatar

«Il metaverso», spiega in apertura del seminario Lorenzo Montagna, fondatore di Second stAR VR, la prima società italiana di consulenza dedicata all’applicazione strategica in azienda delle tecnologie esperienziali di realtà aumentata e virtuale, e  presidente italiano della Vrara, la prima associazione mondiale che raggruppa 28.000 esperti in 50 Paesi nel mondo sui temi di AR e VR, «è il super trend del momento. Su Google si contano oltre cento milioni di ricerche con questa parola. Di fatto è una forma di internet fisico, che posso indossare e dentro cui posso entrare con il mio avatar, che è poi una sorta di controfigura digitale che mi rappresenta. Un po’ quello che è stato Second Life nei primi anni 2000, ma con tecnologie molto più avanzate e le garanzie della blockchain che danno certezza alle transazioni online. Si potrà accedere al metaverso con i visori di realtà aumentata in 3D, con gli occhiali smart per la realtà aumentata, ma anche semplicemente col cellulare o col pc».
Che non sia l’ennesimo annuncio destinato a sgonfiarsi lo dimostra la posta che Facebook ha puntato sul banco: 50 milioni di dollari soltanto per creare una rete di metaversi che trascenda il perimetro del social network dal pollice blu e che preluda piuttosto a un nuovo balzo del web nel futuro. Aperto cioè a una pluralità di metaversi in collegamento tra loro. «Dieci dipendenti di Facebook su cento», riporta Montagna, «sono impegnati in questo progetto che mira entro il 2025 a trasferire nel mondo virtuale oltre un miliardo di persone: gente che oggi si limita a postare, condividere o mettere like, ma che presto prenderà parte alla vita del web in prima persona».
I segnali che stavolta si fa sul serio non mancano. A parte l’esperienza a spanne di chi ha figli (secondo una recente ricerca oltre la metà dei ragazzi danno più peso alla reputazione del loro avatar online che a quella personale nel vissuto in carne e ossa), sono molte le aziende che hanno allargato le ali nei cieli del metaverso.
Elenca Montagna: «Marchi come Balenciaga espongono i loro capi d’abbigliamento dentro il videogioco di Fortnite (nella foto), Gucci ha messo in vendita per 12 euro le sue scarpette digitali con certificato di unicità Nft che possono essere indossate solo dall’avatar di chi gioca, in più tante altre case della moda vendono ormai vestiti inutilizzabili nella realtà ma in gran spolvero sui vari videogame. Non solo. Pensate a Nike, che ha nominato addirittura un direttore per il metaverso. E a tante altre imprese che cercano amministratori delegati e dirigenti specializzati nei processi di virtualizzazione di oggetti e beni aziendali da trasformare in asset che possono finire sul mercato di internet».

Come le banche "entrano in gioco"

Fatte queste premesse, che usi possono farne le banche? Risponde Montagna: «Le banche e la salute sono i settori su cui gli esperti scommettono che avvenga il grande impatto. L’idea è permettere alla propria utenza di vivere in prima persona ambienti e contesti che riguardano l’attività finanziaria. Pensate a Renzo Rosso che a Miami vende appartamenti su misura che possono essere testati e personalizzati virtualmente in 3D prima di essere realizzati. Ma vedo applicazioni possibili anche nel campo della formazione, che grazie alle tecnologie immersive diventa più efficace e meno disattenta».
Che il modello del videogame faccia scuola anche fuori dal mondo delle console lo dicono i numeri di questa economia, che muove nel mondo 170 miliardi di dollari (2 dei quali in Italia). Spiega Fabio Viola, game designer e producer di Lucca Comics&Games, con bisnonno, nonno e padre dipendenti bancari: «La particolarità di questo settore è che il 60 per cento dei giochi è basato sulla logica del free-to-play. Titoli cioè che si presentano come gratuiti, ma che offrono scorciatoie, velocizzazioni e sblocchi tramite micro-transazioni da uno-due euro, anche se in qualche raro caso aumentano anche a mille. Ecco quindi che tutta la partita si disputa sulla capacità di coinvolgere gli utenti del gioco. Una platea vastissima che nel mondo supera i due miliardi e mezzo di persone e che è pronta a giocare anche fuori dai prodotti dell’industria dell’entertainment».

Un link con la Generazione Z

Comprendere la psicologia di chi ama il gioco sullo schermo significa capire meglio quella fascia di popolazione che resta un mistero sfuggente per la gran parte delle aziende nel mondo, banche incluse: la generazione Z. «Perché non offrire un conto corrente agevolato dentro Minecraft o Candy Crash?», azzarda Viola, che ricorda come il più grande concerto della storia non sia stato quello di Woodstock nel 1979, ma quello di Travis Scott del 2020 su Fortnite, che ha raccolto 27 milioni di spettatori, in diretta o in differita, e ha fatturato 20 milioni di dollari, senza vendere un biglietto, ma smerciando oggetti e ricordi immateriali legati all’evento. Realizzare un videogioco per promuovere l’attività di una banca, dice il giovane sviluppatore, vuol dire mettere il proprio pubblico al centro della scena, renderlo parte attiva del messaggio. «Con il risultato di aumentare la conoscenza del brand, la viralità dei suoi contenuti, la fidelizzazione, i feedback per migliorarsi e la conversione dei contatti».
Utilizzi del videogame, inoltre, possono essere fatti – anche qui – per la formazione (Fiat Chrysler per esempio ha realizzato una sorta di città virtuale dove a ogni edificio corrisponde un corso con una serie di prove e quiz che misurano il livello di apprendimento, ma che sviluppano anche la cooperazione tra colleghi: se perdi tutte le vite puoi chiederne in prestito a un altro dipendente). «Anche gli uffici del personale», dice Viola, «possono migliorare il reclutamento trasformando i tradizionali colloqui in una sorta di competizione ludica. Pensate ai coordinatori dei gruppi su Fortnite: ragazzi magari apparentemente ai margini, ma che parlano bene l’inglese, coordinano centinaia di persone e incoraggiano alla sfida i più titubanti. Insomma gente già in regola con le soft skill tanto richieste sul mercato».

I vantaggi del gaming

Marco Pietribiasi, cofounder di Develon Group e strategic Business developer di Develon Digital, nel suo intervento, ricorda poi altri aspetti che fanno guardare al videogioco in chiave diversa da come viene generalmente percepito: non come fenomeno di alienazione e dipendenza, ma come strumento di crescita personale: «Dedicarsi in modo equilibrato ai videogiochi permette di sviluppare la concentrazione, il problem solving, l’apprendimento dai propri errori, la gestione delle frustrazioni, la chiarezza sull’obiettivo. Tutte caratteristiche che possono essere importate nelle pratiche aziendali. Non solo per coinvolgere il pubblico esterno, ma anche per motivare i propri dipendenti. Per una nota catena di retail, ad esempio, abbiamo creato una sorta di social network dove i dipendenti possono sfidarsi e interagire tra loro con punteggi, premi, classifiche, missioni principali e secondarie, condivisioni e generazione di contenuti. Una sorta di campionato dei lavoratori che crea sana competitività, senso di squadra e stimolo a migliorarsi».
Un invito a puntare sulla gamification che viene anche da Francesco Mancino, Ceo e cofondatore di Leevia, altro ospite dell’Osservatorio: «Gamification è tutto ciò che porta gli utenti a fare qualcosa misurabile come capacità di conversione. E perché scatti questa pulsione a cliccare su una certa offerta occorre chiarirsi sull’idea di premio e sulle leve per spingere le persone a partecipare. Noi per esempio abbiamo realizzato una ventina di prodotti che gratificano i giocatori con diverse tipologie di ricompensa. Qualche esempio? L’istant win, il premio immediato o legato a un’estrazione finale; il premio nostalgico, come nel caso del gratta e vinci o della ruota della fortuna, che assicurano un ingaggio maggiore; il quiz o i sondaggi, che sono la forma più evoluta, permettendo una profilazione interattiva con un approccio dai toni empatici».
Quanto alla vincita, non è detto che debba essere per forza in denaro, in oggetti o in sconti. Anche il semplice budge o un posto di rilievo in classifica possono rappresentare a certe condizioni uno stimolo sufficiente a tenere alto il coinvolgimento. Qualche consiglio per le banche? «Tutti i processi già esistenti», suggerisce Mancino, «possono essere arricchiti con meccanismi premiali, grazie a sottoregole innestate nei vari passaggi per raggiungere obiettivi più complessi. Ma soprattutto giochi e vincite permettono di mantenere un rapporto felice con l’utente anche dopo la sottoscrizione e l’ingaggio iniziale».

Conquistare una nuova audience

Su questo fronte si sviluppa la riflessione di Nicola Possagnolo, managing partner di Noonic, uno dei 30 under 30 più influenti nel settore, secondo Forbes: «Il lavoro vero comincia dopo la conversione, che è solo il primo legame con l’utente. Per sviluppare la retention, il mantenimento della relazione, per indurlo a tornare e soprattutto per farlo parlare bene del brand coi propri conoscenti, occorre evitare l’errore di concentrarci soltanto su chi è già pronto per l’azione che l’azienda desidera. Faccio un esempio: se cerchiamo di contattare con i nostri annunci quelli che cercano su Google le parole apri conto avendo le idee già chiare, avremo tassi di conversione alti, ma a costi enormi. L’idea è invece di cercare il restante 97 per cento, di chi ha idee vaghe o non ne ha affatto, attraverso gli elementi del gioco. A una grande banca internazionale, per esempio, abbiamo suggerito di concentrarci sulle nicchie, come quella appunto dei gamer, offrendo loro servizi specifici come skill gratuite, pagamenti tramite Play Station e altre formule dedicate. È così che questo brand ha potuto lanciare una campagna in cui asseriva di essere la prima banca per gamer. Oppure abbiamo creato un sistema che offriva un biglietto della lotteria ogni volta che il cliente faceva determinate operazioni online. Insomma, l’idea è quella di associare gli istituti di credito a un’esperienza sempre giocosa».
Un ramo particolare nella botanica della gamification è emerso di recente con il successo di TikTok, la piattaforma cinese amatissima dai più giovani per la possibilità di realizzare e seguire video veloci e di forte coinvolgimento, spesso associati alle challenge, le sfide divertenti tra persone di ogni parte del mondo. Con tre tipi di pagine. La prima è Per te, in cui vengono offerti contenuti in base all’interesse dell’utente. La seconda è Discovery, che invita alla scoperta di nuovi video. La terza è hashtag, per la ricerca di filmati a seconda dei vari temi. Dice Francesco Sommariva, Head of growth di TikTok Italia: «Noi offriamo una meccanica di interazione nuova. Basata su intrattenimento e scoperta. Per l’intrattenimento ci sono tipologie come Stitch, i video con situazioni paradossali, spesso prese in giro da un creator di successo come Khabi Lame, o i Duet, clip con scambi in contemporanea tra utenti. Per la scoperta invece si entra nell’approfondimento. Segnalo ad esempio l’hashtag #imparacontiktok che coinvolge già 22 milioni di italiani e che offre informazioni davvero utili a tutti».
È qui che si aprono opportunità interessanti per le aziende della finanza. Basta pensare al commercialista che spopola con brevi video in cui interpreta ironicamente sia il professionista che il cliente, offrendo consigli sui problemi fiscali. O a grandi aziende come Oppo o Luxottica che lanciano sfide agli utenti a colpi di effetti speciali da creare sulla base di un canovaccio di partenza. «Ma è sul fronte dell’educazione finanziaria», osserva Sommariva, «che vedo grandi spazi di azione per le banche, vista la presenza di tanti giovani creator che inventano video in cui insegnano alle nuove generazioni le basi del risparmio o come investire i soldi che mettono da parte».

L'Alternate reality game

Che la gamification funzioni, oltre alle tante esperienze commerciali, lo dimostrano anche i progetti sociali per il recupero dei giovani emarginati. Fondazione Vodafone Italia, per esempio, ha coinvolto 5mila neet (che cioè non hanno lavoro né lo cercano, in Italia ce ne sono oltre un milione) in un progetto di formazione tutto centrato sul meccanismo del gaming: «Il gioco», racconta Adriana Versino, consigliere delegato della Fondazione, «prevede sette livelli di competizione, in ciascuno dei quali i partecipanti devono sviluppare la presenza online di un’app di meeting o di una birreria: passo dopo passo si passa dall’analisi della concorrenza alla creazione del logo, dal lancio sui social al calcolo del budget sui fogli Excel, fino alla missione finale che porta i partecipanti dentro percorsi formativi in presenza con i nostri partner. I risultati, finora, sono straordinari: ragazzi senza speranza hanno ripreso in mano la loro vita studiando, tramite l’unica cosa che era rimasta loro e da cui non si separano mai: il cellulare».
Ma come ibridare la gamification con l’elemento del racconto? Come dargli cioè spessore e durata? L’ultimo testimone della giornata di ABI lo raccoglie Riccardo Milanesi, docente di Digital e transmedia e storytelling alla Scuola Holden e alla Sapienza di Roma. «Oggi le aziende possono sfruttare un’altra delle caratteristiche dei videogiochi: la narrazione aperta e transmediale. Ciò che adesso coinvolge è il racconto totale, distribuito nei diversi media, come il video, i social, il videogame, la radio, il podcast, il libro o l’evento in un luogo fisico. L’azienda, o chi per lei, diventa il responsabile delle regole del gioco, con le istruzioni di base, come i personaggi, l’ambientazione e le tracce della storia. Poi il racconto può prendere strade diverse a seconda dei mezzi: una storia parallela, le vicende di un personaggio minore, un prequel, un finale alternativo».
La costruzione di un universo narrativo ha dato vita a un fenomeno che va sotto il nome di Arg, Alternate reality game, un’esperienza ludica, collaborativa e immersiva che si svolge in una realtà costruita in tempo reale dal narratore con il contributo dei partecipanti. Un esempio celebre è stato il lancio del film The dark knight, episodio della saga di Batman, una delle più lunghe campagne di marketing mai realizzate. «Durante 15 mesi», rammenta Milanesi, «migliaia di fan hanno vissuto in prima persona le storie di Batman e, indizio dopo indizio, hanno ricostruito la trama che collega la nuova pellicola con il capitolo precedente. Una narrazione interattiva in cui i partecipanti sono andati a caccia di indizi disseminati su siti web, segreterie telefoniche, pasticcerie, sms, magliette, poster, striscioni trascinati dagli aerei, luoghi fisici e una pluralità di eventi. E siamo appena all’inizio di questa nuova era della comunicazione».
Proprio così. L’industria del marketing ha capito che in due occasioni noi umani riusciamo a essere veramente noi stessi, al di là delle maschere che indossiamo: quando torniamo bambini e quando siamo messi sotto pressione. E cosa c’è di più potente che offrire a una persona l’occasione di essere davvero se stesso?
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