Perché deve crescere la competenza dei lavoratori italiani
di Mattia, Schieppati
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9 Maggio 2017
Il nuovo report dell’Ocse evidenzia la grave scarsità di skills di base dei lavoratori Italiani, sottolineando la necessità per il sistema-Paese di investire su strumenti di formazione continua, in tutti i settori, e di attrarre studenti e ricercatori stranieri. Con grandi vantaggi in termini di produttività ...
Una classificazione che vale (e pesa!) molto più della temuta tripla C delle agenzie di rating. E che spiega la situazione attuale di un’economia che fatica a uscire dalla stagnazione più di tante chiacchiere sulla delocalizzazione, sulla concorrenza asiatica e sulle guerre doganali. La realtà fotografata dall’Ocse nel report
Skills Outlook 2017: Skills and Global Value Chains, freschissimo di pubblicazione – è molto più semplice, anche se difficile da digerire: l’Italia ha perso e perde terreno sul fronte della competitività perché
la qualità culturale della popolazione si sta impoverendo, ovvero – tradotto in linguaggio aziendale – stanno venendo sempre meno le competenze necessarie a far bene il proprio lavoro, e a farlo talmente bene da essere attrattivi per il mondo globale, e fare la differenza nella costruzione della catena di valore di un prodotto o di un servizio.
I dati dello studio Ocse sono impietosi: l’Italia ha la terza più alta percentuale di adulti (38%) con scarse competenze nel leggere e scrivere o in matematica, e per i lavoratori la percentuale è di poco inferiore (34%). Dietro di noi si piazzano solo Cile e Turchia. I lavoratori italiani sono anche nella parte bassa della classifica relativamente alle “task-based skills”, cioè alla frequenza con cui utilizzano alcune specifiche competenze nella realizzazione del loro lavoro: penultimi nell’impiego delle competenze contabili e di marketing, così come delle competenze Stem (scienze-tecnologia-ingegneria e matematica) e nella capacità di auto-organizzarsi, terzultimi nell’utilizzo delle capacità di gestione e comunicazione.
E se questa è la fotografia degli occupati attuali, le nuove generazioni rischiano di non essere attrezzate per fare meglio. Sempre secondo quanto ha misurato l’Ocse, i ragazzi, pur avendo registrato miglioramenti dal 2000, restano sotto la media Ocse nelle competenze scolastiche: il 36% dei giovani diplomati ha capacità matematiche inferiori al livello 2, cioè ai livelli minimi di una scala che va da 1 a 6.
E ancora. In Italia gli adulti fanno registrare un basso tasso di partecipazione ad attività di formazione. E l'Italia fa fatica ad attrarre studenti e ricercatori stranieri a causa del fatto che poca parte della formazione universitaria effettuata nei nostri atenei prevede corsi in lingua inglese. Più che preoccuparsi dei cervelli in fuga, sembra suggerire l’Ocse, l’Italia dovrebbe preoccuparsi della mancanza di cervelli stranieri in arrivo, preoccuparsi meno di esportare il Made in Italy nel mondo e cominciare a porsi l’interrogativo di come importare un po’ di “Made nel mondo” in Italia.
«Nell’ultimo ventennio», scrivono i ricercatori Ocse, «il mondo è entrato in una nuova fase di globalizzazione mettendo i Paesi e i lavoratori di fronte a nuove sfide e opportunità. Grazie alla crescita della tecnologia dell’informazione, la produzione si è mondializzata e frammentata nelle cosiddette catene globali di valore: i lavoratori di Paesi diversi contribuiscono alla progettazione, alla produzione, alla commercializzazione e alle vendite dello stesso prodotto».
È evidente che, di fronte a una situazione del genere, deve cambiare l’approccio non solo delle aziende ai mercati, ma anche dei singoli lavoratori rispetto alla propria professione, e all’orizzonte rispetto al quale vogliono competere (non fosse altro che per “salvare il posto”), ovvero essere all’altezza del lavoro che stanno facendo rispetto a una competizione che è cresciuta, e che vede in campo Paesi che sulla formazione continuano a credere, a investire, e fare innovazione.
«Il nostro studio», dicono dall’Ocse, «mostra che attraverso gli investimenti nelle competenze dei propri cittadini, i Paesi possono contribuire a garantire che la loro partecipazione nei mercati globali si tramuti in migliori risultati economici e sociali». «Quando lo sviluppo delle competenze accompagna la partecipazione alle catene globali di valore, i Paesi possono realizzare una maggiore crescita della produttività. Questa crescita aggiuntiva varia da 0,8 punti percentuali nei settori dell’industria con minore potenziale di frammentazione a 2,2 punti percentuali nei settori con più alto potenziale, come per esempio le industrie manifatturiere ad alta tecnologia».