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12 Novembre 2024 / 22:27
 
Fintech: è scontro Trump-Cina

 
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Fintech: è scontro Trump-Cina

di Mattia Schieppati - 6 Febbraio 2018
Lo stop di Washington all'acquisizione di MoneyGram da parte di Alibaba dimostra come le tecnologie di pagamento siano sempre più un fattore strategico
«Make America Great Again», slogan che ha portato Trump alla Casa Bianca e che il presidente Usa ha ripetuto anche poche settimane fa sia durante il suo speech al World Economic Forum di Davos, sia in occasione del suo primo discorso sullo "Stato della Nazione", passa anche da un protezionismo molto attento a quello che è ormai uno dei motori più solidi della Great America: la potenza delle sue aziende tecnologiche. Il caso imprenditorial-diplomatico di MoneyGram esemplifica bene quale sia la strategia Usa.
Dopo un anno di contatti, di affinamenti, di messe a punto e di reciproca conoscenza, sembrava cosa fatta. E invece il tanto atteso matrimonio tra la cinese Ant Financial Service, il braccio finanziario di Alibaba, e MoneyGram, uno dei più rilevanti operatori di digital money transfer con sede a Dallas, è stato bloccato nientemeno che dal Cfius, il  Comitato sugli investimenti stranieri negli Usa che fa capo al Dipartimento del Tesoro. Motivo? L'azienda del fintech deve rimanere americana per «motivi di sicurezza nazionale».
Una ragione evidentemente superiore agli 1,2 miliardi di dollari che Jack Ma, l'imprenditore cinese fondatore di Alibaba, aveva messo sul piatto per chiudere l'operazione. Una mossa che a Pechino non è piaciuta e che porta alla luce una generale politica di "protezionismo digitale" messa in atto dal Governo Usa rispetto a quello che è ormai un patrimonio non solo commerciale, ma addirittura collegato alla sicurezza strategica degli States: la tecnologia applicata a un settore delicato come quello della finanza (che significa un patrimonio considerevole di dati sensibili che, evidentemente, gli Usa non gradiscono condividere con i cinesi, che ormai in diversi settori insidiano - quando non hanno già superato - la leadership americana in ambito tecnologico).
Gli investimenti cinesi negli Stati Uniti sono nettamente aumentati negli ultimi anni, per un totale di 46 miliardi di dollari lo scorso anno. E aziende e investitori dell'ex Celeste Impero controllano già la maggioranza dei pacchetti azionari di ben 2.400 imprese americane, per un valore complessivo di 56 miliardi di dollari, con 114 mila dipendenti (quanto Google, Facebook e Tesla messe assieme).
Dopo questa prima, pacifica invasione, con l'arrivo del presidente Trump, Washington ha molte più riserve rispetto alle acquisizioni cinesi. Gli Stati Uniti stanno moltiplicando le inchieste sulle pratiche commerciali del regime comunista, accusato di avvantaggiare le sue imprese. Per esempio, lo scorso settembre lo stesso Trump ha posto il veto su un altro "affare d'oro", la vendita per 1,3 miliardi di dollari di Lattice Semiconductor alla cinese Canyon Bridge Capital Partners, finanziata dal governo di Pechino, in una mossa a tutela delle società tecnologiche considerate asset strategici nazionali di fronte allo shopping cinese.
Pechino, ironia della sorte, non ci sta, e invoca una «libertà di capitalismo» che stride un po' con la storia del Paese: il governo cinese, dopo questa ennesima presa di posizione, di  «garantire parità di condizioni e un ambiente prevedibile», in modo che le imprese cinesi possano investire e aprire sedi nel Paese. «Vogliamo lavorare con gli Usa per stabilire vantaggi reciproci in modo da far progredire la nostra cooperazione economica, perchè questo risponde agli interessi dei due popoli», ha dichiarato Geng Shuang, portavoce del ministro degli Esteri cinese, insistendo sul fatto che «il governo cinese incoraggia sempre le sue aziende a seguire le pratiche di mercato, le regole internazionali e le leggi locali».
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