“Basta influencer, sono i dipendenti i migliori testimonial dell’azienda”
di Massimo Cerofolini
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1 Febbraio 2019
All’Osservatorio ABI Digital Marketing e Comunicazione Integrata le nuove strategie di marketing in atto nelle grandi società
Ingaggiare Chiara Ferragni, regina dell’influencer su scala globale, può costare anche qualche migliaio di euro per un semplice post. Chiamare star di YouTube più a buon mercato può essere un’alternativa. Ma in ogni caso il dubbio resta: ha senso coinvolgere un personaggio popolare sul web per promuovere un’azienda che si occupa di tutt’altro? Possibile che non esista una soluzione più credibile? È questa la scintilla che ha portato Lucia Sciacca (nella foto), direttore Comunicazioni per Generali Italia, a promuovere Storymaker club, l’iniziativa che trasforma i dipendenti in una sorta di ambasciatori del marchio sui social network. E che si pone come esperienza pilota per tante altre realtà, incluse quelle del mondo bancario.
“Abbiamo deciso – spiega Sciacca, ospite dell’Osservatorio Digital Marketing e Comunicazione integrata organizzato da ABIServizi con il coordinamento scientifico di ABI – di coinvolgere i nostri dipendenti, circa diecimila in Italia, come testimonial per raccontare la nostra storia aziendale attraverso i loro social network. Funziona così: sono i lavoratori stessi a realizzare i contenuti proposti dall’azienda che di volta in volta riguardano il sociale, la cultura, l’innovazione. Vengono chiamati, ovviamente su base volontaria, a partecipare agli eventi e a diventare di fatto dei nuovi influencer: quindi a catturare l’attenzione di chi naviga realizzando storie originali, con punti di vista creativi”.
Ecco allora che sul sito di Storymaker Club vengono caricati video sulla mostra di Pollock a Roma o sulle iniziative contro il bullismo che coinvolgono artisti come Saturnino. Ai dipendenti il compito di girare video, confezionarli secondo il proprio stile, pubblicarli su Facebook, Instagram o YouTube, coinvolgere i propri amici e, nei casi più brillanti, gli amici degli amici. Un tamtam che porta a numeri di tutto rispetto: 20 milioni di interazioni, per esempio, il dato messo in moto da Storymaker Club. Non solo. Negli eventi del mondo assicurativo, Generali è finito spesso tra i trend topic grazie anche alla partecipazione dei propri dipendenti e al rilancio dei contenuti fatto dagli altri colleghi e dalle rispettive reti di relazione.
“Risultati premianti – precisa Lucia Sciacca - non solo per la visibilità che raggiungiamo all’esterno, ma anche in termini di coinvolgimento e risposta da parte dei nostri dipendenti. Basta vedere l’entusiasmo con cui molti di loro si cimentano nel produrre contenuti, sentendosi valorizzati e apprezzati anche dai loro colleghi. E con cui diventano promotori
della storia aziendale”.
In fondo, pioniere del fenomeno è stato Giovanni Rana, che per anni ha messo la faccia sui suoi prodotti di pasta fresca negli spot televisivi. Ma qui il fenomeno è corale. E la tendenza sta prendendo piede in tutto il mondo. In America, per esempio, uno studio ha calcolato che tre dipendenti su quattro, quando sono sui social, parlano già oggi della propria azienda. E allora, perché non dare una forma e una direzione a questa attività che già di fatto avviene?
“Comincia l’era dei micro-influencer legati all’impresa”, dice Giampaolo Colletti, esperto di marketing per il Sole24 ore e coautore del libro “G-Factor - Storie di imprese che crescono con Google” – quelli a cui gli amici si rivolgono per avere un consiglio sui prodotti aziendali anche nella vita reale. Secondo un’indagine di Forbes, per avere un’idea, 82 consumatori americani su cento hanno più piacere ad acquistare qualcosa consigliato da chi lavora per un certo marchio, piuttosto da un testimonial esterno. E in più, secondo le statistiche, le comunicazioni aziendali sono condivise sui social ben 24 volte di più quando provengono dai singoli lavoratori anziché dai canali ufficiali”.
Un altro esempio di successo è quello di NordiConad, colosso della distribuzione, che ha applicato la strategia dei micro-influencer ai cassieri e agli addetti al banco dei suoi punti vendita nel Settentrione. “Sono state create 140 fanpage su Facebook – ricorda Colletti – con il risultato di portare molti consumatori dallo schermo del web agli scaffali del supermercato: ascolto la storia che racconta online il responsabile del reparto pescheria e mi viene da scendere a comprare le vongole”.
Certo, gran parte delle aziende mantengono un atteggiamento di prudenza prima di affidare ai propri dipendenti l’immagine del brand sui social. E tra i motivi c’è anche il rischio che qualcuno metta in imbarazzo la società pubblicando contenuti inopportuni su argomenti sensibili come immigrazione, sesso o politica. O semplicemente postando video goffi che, come accaduto, si rivelano degli autogol. Come si evitano queste cadute?
Dice Lucia Sciacca: “Si evitano attraverso la formazione dei dipendenti, la presenza di linee guida chiare su come costruire contenuti e soprattutto con il buonsenso. Ma quello che conta è la fiducia che queste operazioni creano. È dimostrato che le persone si fidano più del racconto di una persona che di quello dell’istituzione per cui lavora. Questo è il vero elemento di valore dei micro-influencer interni all’impresa”.
Insomma, quello che è in atto sembra un vero e proprio cambio di paradigma nella comunicazione. Sempre più evidente tra gli esperti del settore. All’Osservatorio Abi è intervenuto un grandissimo esperto di pubblicità, Paolo Iabichino (a sinistra nella foto), premiato come Comunicatore dell’anno e autore del libro Scripta manent. “Ci siamo resi conto un po’ tutti – ha osservato - che sono tantissime le persone che lavorano nelle aziende collegate ai canali e alle piattaforme online. È una fonte di energia comunicativa enorme. E per questo si stanno disegnando sempre più strategie di promozione rivolte a comunità interne che sostituiscono gli influencer alla moda. Sono persone che conoscono l’azienda da dentro e che possono trasferirne il valore in maniera trasparente. E il più possibile sincera”.