“Trasformo scienziati in imprenditori”, la magia dell’ingegnere umbro
di Massimo, Cerofolini
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22 Marzo 2018
Massimo Cerofolini, giornalista Rai Radio1 e tra i protagonisti de #ILCLIENTE, intervista Andrea Alunni, alla guida del Technology Transfer Office dell’Università di Oxford, che punta alla valorizzazione della proprietà intellettuale, con un obiettivo: costruire un ponte tra chi crea, chi inventa dentro le aule o nei centri di ricerca e i potenziali investitori. Così i brevetti diventano imprese
Il suo compito è far parlare due mondi che per troppo tempo si sono guardati con reciproco sospetto. Da una parte quello delle università, dove passare dalle ricerche ai brevetti è spesso considerato un affronto al sapere. Dall’altra quello degli investitori, dove finanziare progetti senza ritorni immediati è spesso ritenuto uno spreco di tempo. È con questa missione da pontiere che
Andrea Alunni ha organizzato ad Alicante, in Spagna, il primo workshop sul technology transfert, ossia sul trasferimento delle tecnologie dai laboratori accademici alle aziende che competono sul mercato. L’ha fatto, nei giorni scorsi, chiamando i maggiori protagonisti mondiali del settore, sotto le insegne dell’
Euipo, l’Organismo europeo per la proprietà intellettuale. Uno dei tanti incarichi di questo personaggio poliedrico, che, con una laurea in ingegneria spaziale in tasca, ha girato aziende finanziarie di mezzo mondo, fino ad approdare alla guida dell’ufficio che nell’Università di Oxford prova appunto ad accendere nei suoi studenti il genio dell’imprenditoria.
Origini perugine, modi cortesi e ottima capacità di racconto (ha scritto persino due romanzi a sfondo thriller, l’ultimo, “Regole di gara”, sta per diventare un film), Alunni accetta di rispondere a qualche domanda. Anzitutto, l’obiettivo che l’Europa considera strategico per il suo rilancio economico: la difesa e la valorizzazione della proprietà intellettuale.
Massimo Cerofolini, giornalista Rai Radio1, sarà tra i protagonista de
#ILCLIENTE, chair della sessione “Interagire sui social” e della tavola rotonda “Ingaggiare il cliente: social media, digital marketing e nuovi approcci relazionali”
Ingegnere, cosa si intende per proprietà intellettuale?
La proprietà intellettuale è un patto tra inventori e Stati. In cui si dice: se tu mi racconti la tua invenzione, io – Stato – in cambio ti garantisco per una media di 20 anni lo sfruttamento esclusivo dei relativi benefici sotto tutela. Un patto che può avere molte articolazioni: brevetti, copyright per opere d’ingegno o software informatici, denominazione di origine del cibo, marchi o design, know how.
Perché è così importante la sua tutela?
Perché oltre il 60% dei lavori creati in Europa hanno alla base attività intellettuali. E dunque aumentare il passaggio dai luoghi in cui le idee nascono, come le università, a quelli dove diventano beni e servizi per il mercato significa aumentare l’occupazione. Non solo. Quasi la metà del prodotto interno lordo europeo, il 45%, deriva da aziende che usano la proprietà intellettuale. Eppure, purtroppo soltanto una minima parte dei brevetti oggi raggiunge il mercato.
Lei guida proprio il Technology Transfer Office dell’ateneo di Oxford, una squadra di un centinaio di persone che ogni giorno vanno a caccia dei migliori talenti dell’università, per aiutarli a diventare impresa. In che consiste il vostro lavoro?
Ci rivolgiamo anzitutto a chi crea, chi inventa cose di valore dentro le aule o nei centri di ricerca. Il nostro scopo è aiutare quelli di maggior valore a proteggere legalmente i loro progetti e soprattutto a sviluppare ciò che sarà il loro primo biglietto da visita: un prototipo semi-commerciale. Perché per passare dal brevetto all’impresa bisogna necessariamente dimostrare che il progetto ha basi concrete. E che funziona non solo sulla carta.
Come selezionate i giovani e che tipo di rapporto instaurate con loro?
A volte siamo noi a cercare gli studenti e i ricercatori migliori, a volte si fanno avanti loro. In tutti i casi, il nostro compito è prima di tutto ascoltarli, senza agende nascoste. Il nostro primo obiettivo è far capire che si possono fidare di noi. Nessuno è lì per rubare idee. Anzi. Instaurato un rapporto di fiducia, si lavora insieme per lo sviluppo del progetto: curare i dettagli, la comunicazione, formare una squadra affiatata, proteggere la proprietà intellettuale, testare il prodotto, preparare un business plan.
A questo punto entra in scena l’altro attore, il potenziale investitore. Come lo trovate?
Non è facile. In genere chi finanzia un’azienda è interessato a vedere risultati sul breve o sul medio termine, diciamo intorno ai 5 anni massimo. I prodotti che escono dalle università, per loro natura, hanno però tempi lunghi, dai 15 anni in su. Cerchiamo quindi imprenditori coraggiosi, visionari, che possono immaginare investimenti che magari vanno al di là della loro vita istituzionale. Per non parlare di chi gestisce investimenti che già nascono tarati su tempi molto lunghi, come i fondi pensione o le assicurazioni.
Che ruolo possono avere le banche in questa vicenda?
Un ruolo determinante. Prima della caduta dei mercati nel 2001, c’era stata qualche apertura. Poi è prevalsa la prudenza. Ma ora ci sono di nuovo le condizioni perché anche le banche guardino a questo fenomeno con interesse. In generale però, ma questo vale per tutti, occorre formare nuove competenze.
Che genere di competenze?
Competenze multidisciplinari, capaci di spaziare in ambiti che finora sono stati sempre tenuti separati. Gestire gli aspetti scientifici insieme a quelli manageriali, la ricerca insieme all’impresa, è infatti molto complesso. Richiede una nuova formazione. E una professionalità, quella appunto del technology transfer manager, che è ancora tutta da consolidare.
Come fare?
Il mondo accademico, intanto, potrebbe lanciare master con programmi specifici capaci di dare, oltre che un bagaglio di conoscenze e di strumenti, anche una dignità a questo nuovo lavoro, in modo da poterlo identificare come oggi si fa con quello di un geometra o di un avvocato. Il mondo della finanza, invece, potrebbe impegnarsi a dedicare più risorse nei progetti a lungo termine. Senza cambiare direzione se i risultati non arrivano subito. È una visione a lungo termine, che però sulla distanza paga. L’obiettivo è creare un senso di fiducia, in modo che tutti gli attori coinvolti operino in simbiosi.
Alla Conferenza di Alicante avete invitato le migliori realtà internazionali che hanno aperto la strada nel trasferimento tecnologico. Quali sono le migliori pratiche in atto?
Un caso di cui ci occuperemo è quello del Mit di Boston, che da tempo ha un grande ufficio per trasformare le ricerche di laboratorio in brevetti e i brevetti in aziende. A chiusura del cerchio hanno anche lanciato un incubatore per start-up che si chiama The Engine, espressamente rivolto agli innovatori che vogliono cambiare il mondo.
E la vostra esperienza a Oxford come sta andando?
Abbiamo un ufficio con oltre cento professionisti che creano ponti tra accademia e aziende. Hanno tutti un doppio curriculum: nei master che hanno frequentato si studia per un anno materie scientifiche e per un anno finanza o management.
Lo scorso anno è stato chiamato dalla Fondazione Compagnia di San Paolo a sviluppare la versione italiana del Technology Transfer Office che dirige in Inghilterra. Ha cominciato al Politecnico di Torino e ora sta collaborando con altri atenei. Come sta andando?
Ho accettato l’offerta con entusiasmo, convinto che coinvolgere i giovani talenti nell’ammodernamento del nostro sistema economico sia fondamentale. Purtroppo l’Italia, pur dotata di straordinari ricercatori, sconta un ritardo storico nel passaggio dai laboratori al mercato. Le prime 25 università italiane messe insieme hanno circa 2.000 brevetti in fase avanzata. L’Università di Oxford da sola ne conta 3.500. Siamo circa 15 anni indietro al Regno Unito. E se vogliamo recuperare dobbiamo armarci di buona volontà e cominciare a fare squadra.
Cosa consiglia a un potenziale investitore italiano? Come scegliere i progetti che vale la pena di sostenere?
Prima regola: non investite soltanto sul singolo inventore. Investite sulla squadra. Seconda regola: domandarsi se il progetto risponderà ai bisogni che si svilupperanno nei prossimi venti anni. Avremo bisogno di più antibiotici, perché quelli attuali non funzioneranno più? Affideremo i calcoli a un computer quantistico? Avremo bisogno di nuove tecnologie per combattere il cambiamento climatico? Ecco farsi le domande giuste. Terza regola: creare una simbiosi tra chi ha i capitali: business angel per la parte inziale del progetto, venture capital per quella successiva, magari andando a cercare partner nelle piazze più inclini al rischio, come New York e Londra. In fondo basterebbe poco per riportare l’Italia dentro una cultura del futuro. Basterebbe avere un po’ più di fiducia su chi nel futuro vivrà: i nostri giovani.